La schizofrenia dello scrittore

Sono uno scrittore schizofrenico.
Lo so, ne sono perfettamente consapevole.
Nel senso che scrivo – in maniera assolutamente compulsiva e spesso torrenziale – degli argomenti più disparati e differenti tra di loro, per tono, stile, forma, contesto, registro e contenuto.
Con disinvoltura forse inquietante scrivo indistintamente di politica e del festival di Sanremo, di femminicidio e di fiction, di bullismo e di musica, di storia e di televisione. Scrivo cazzate paurose sulle mie tragicomiche disavventure quotidiane e contemporaneamente tratto argomenti serissimi e giganteschi. Scrivo racconti d’amore e mi diverto a fare infiniti elenchi di tutte le banalità che mi danno piacere o dispiacere. Pubblico poesie esistenzialiste e allo stesso tempo do i voti a film e telefilm. Scrivo romanzi e saggi di letteratura, testi teatrali e sceneggiature.
Ma tutte queste cose così diverse, alcune addirittura inconciliabili, almeno una cosa in comune ce l’hanno: mi piacciono. E parecchio.
E ovviamente mi piace scriverne.
Per quanto possa sembrare strano (o assurdo) a qualcuno, mi piace scrivere sia racconti sia articoli satirici, sia di Eugenio Montale sia del festival di Sanremo.
E non potrebbe essere altrimenti.
Molti anni fa ho fatto una scelta ben precisa, che è quella di scrivere esclusivamente di cose che mi piacciono e mi interessano. Che poi in realtà non è stata proprio una scelta, ma una specie di percorso obbligato. Nel senso che so scrivere soltanto ciò che mi va di scrivere. E, attenzione, non lo dico per vanto o per chissà quale rivendicazione di purezza. Ho molti amici e colleghi capaci di scrivere su commissione, su richiesta o semplicemente su qualche indicazione. Il che è un’arte e un talento. Che io, sinceramente, non ho. Il saper scrivere solo ciò che mi va, come quasi tutto ciò che riguarda creazione e creatività, è al tempo stesso un grande pregio e un grande limite. In teatro e nelle sceneggiature, ad esempio, è stato soprattutto un grande limite.
Ma non voglio dilungarmi.
Tutto questo era solo per dire che qualunque cosa io scriva, o meglio che pubblichi, quale che sia, la metto in gioco e serenamente la espongo ai commenti (tanto di approvazione quanto di critica) di chiunque la legga. Fa parte del grande gioco dello scrivere e dell’essere scrittore, accettare applausi sinceri e applausi gratuiti, complimenti commoventi e complimenti interessati, critiche severe e critiche blande, critiche motivate e critiche pretestuose, fraintendimenti, equivoci, indifferenza, attenzione morbosa, affetto, consenso e quant’altro.
Tutto questo lo accetto più o meno serenamente (altrimenti smetterei di pubblicare all’istante), anche quando qualche commento riesce a irritarmi, anche le critiche. Forse soprattutto quelle, quando sono costruttive e, pur criticandomi, riescono a darmi prospettive importanti e interessanti.
Fanno eccezione gli insulti e gli attacchi gratuiti (che, se pur in piccola parte, puntualmente arrivano ogni volta che parlo di politica o di qualsiasi argomento “scomodo”), ma anche quelli con il tempo ho imparato a farmeli scivolare addosso.
Ciò che invece accetto meno (o che forse non accetto per niente), e che al tempo stesso mi colpisce e mi stupisce di più, è l’atteggiamento di chi sentenzia e pontifica sugli argomenti che decido di trattare. Non è la critica in sé a darmi fastidio o a colpirmi (anche perché non si tratta di vere e proprie critiche), ma la pretesa di non voler vedere pubblicate, a priori, determinate cose. E la pretesa che uno scrittore debba parlare solo di determinate questioni.
In questi ultimi giorni ho ricevuto, da due persone diverse, due messaggi molto simili, che dicevano più o meno la stessa cosa. Riferendosi alla settimana in cui ho dedicato gran parte del blog a commentare il festival di Sanremo, hanno tenuto a dirmi che “era una pessima caduta di stile”, che non si capacitavano come io potessi parlarne. Ma soprattutto mi invitavano a evitare, in futuro, di occuparmi di “simili cazzate” che mi screditerebbero “come artista, come intellettuale e come uomo”. Per concludere che loro erano arrivati su questa pagina leggendo i miei articoli politici e i miei brevi saggi di storia. Se continuo con Sanremo, dicono, perderò dei lettori. Loro per primi.
Non ho intenzione di fare i nomi di chi mi ha scritto e di fare quelle pubblicazioni tanto di moda di questi tempi (la foto della mail con la cancellatura sopra il nome del mittente). Non scrivo questo né per trovare vendetta in un pubblico linciaggio, né perché sono in cerca di sostegno o approvazione dagli altri.
Scrivo questo perché voglio essere chiaro con tutti voi, con tutti quelli che hanno la pazienza e la bontà di leggermi e seguirmi. Io capisco: magari siete arrivati su questo blog di recente, attraverso un mio libro impegnato, oppure attraverso un articolo serissimo sul terrorismo internazionale o sulla riforma della scuola. Poi sul blog avete trovato, oltre a questo, anche altro e ci siete rimasti male. E non vi è piaciuto.
Bene, più che legittimo. Non sta a me convincervi del contrario né saprei come farlo. Io, per fortuna o purtroppo, questo sono, e questo trovate qui dentro. Se questa pagina, se il mio spaziare tra così tante “diversità” vi infastidisce, non vi piace o addirittura proprio non la sopportate, non siete in gabbia, potete andarvene, smettere di leggerla. Sopravviveremo entrambi, voi che andate e io che resto qua.
Quello che volete insomma, però, vi prego, non mi venite a dire di quali argomenti devo o non devo parlare. Oltre che assurdo, è anche irrispettoso nei miei confronti.
Sempre per fortuna o purtroppo non posso, né so, essere qualcosa di diverso da me stesso.

Grazie davvero a tutti, a chi c’è stato, a chi c’è e a chi continuerà a esserci.

RL

#resistenzeRiccardoLestini

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