Quel partito rissoso che non ha mai vinto le elezioni

Il PD ha compiuto dieci anni.
E la cosa, manco a dirlo, ha riempito una settimana di cronache politiche. Non tanto per la “festa” in sé, che di fatto non c’è stata (una semplice e sobria iniziativa al Teatro Eliseo, niente a che vedere con la pompa magna dell’atto di battesimo al Lingotto di Torino), quanto per ciò che questa “non festa” si è portata dietro.
Prima di tutto gli assenti, non più numerosi ma sicuramente più rumorosi dei presenti. Scissionisti di Mdp a parte (ovvio e scontato che non ci fossero), hanno fatto molto scalpore le assenze clamorose di tutti i “padri nobili” del PD, soprattutto quella di Romano Prodi. Il professore, che non è stato nemmeno invitato, si è limitato a rilanciare una dichiarazione ancora più rumorosa della sua assenza: “non parlo nemmeno sotto tortura”.
Per il resto, illustri assenti a parte, ancora polemiche. Polemiche d’ogni sorta: contro gli scissionisti di Mdp, contro gli esuli di Possibile, contro le correnti interne che non fanno il loro dovere, polemiche sulla legge elettorale, su chi deve o non deve essere alleato del PD.
E via dicendo.
Tra tutti questi rancori e sbocchi di bile avvelenata, è mancato proprio ciò che di solito è il sale di anniversari come questo: l’amarcord e i bilanci.
Il perché, forse, è abbastanza semplice. Un qualsiasi bilancio serio e onesto avrebbe trasformato la non festa in un vero e proprio funerale, rivelando numeri impietosi.
Il PD, dieci anni fa, nacque sulla base di due presupposti e altrettanti obiettivi:
1) vincere e governare il paese;
2) imporre al paese una svolta in senso maggioritario che, al tempo stesso, superasse sia la frammentazione politica sia la logica delle coalizioni.
Dieci anni dopo, il PD deve fare i conti con un maggioritario non solo mai realizzato, ma con la recentissima approvazione di una legge elettorale – proveniente dall’interno dello stesso PD – che inchioda i partiti all’obbligo di formare coalizioni.
Soprattutto, questi dieci anni raccontano di un partito nato per governare e che non ha mai vinto un’elezione: la netta sconfitta del 2008, la clamorosa non vittoria del 2013, il disastro del referendum dello scorso 4 dicembre, le amministrative in cui puntualmente ha perso piazze storiche e decisive.
Unica eccezione le europee del 2014.
Ma in un mondo che considera la UE alla stregua di carta straccia, altro non è stata che l’ennesima vittoria di Pirro.

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