Dopo Barcellona

L’attentato di Barcellona, per quanto simile, se non identico almeno nelle modalità, a tutti quelli che nel passato più recente hanno insanguinato l’Europa, ha avuto comunque un impatto diverso rispetto ai precedenti, anche solo dal punto di vista simbolico.
È stato, anzitutto, una specie di suggello a termine di un’estate in cui, chiunque e dovunque, ha toccato veramente con mano e per la prima volta i mutamenti (a volte gli stravolgimenti) della nostra quotidianità, in cui chiunque e dovunque ha percepito sulla propria pelle l’irruzione della minaccia terroristica nella vita di tutti i giorni.
Non si tratta più di presidi militari a protezione dei cosiddetti “obiettivi sensibili”, ai quali siamo abituati da tempo. Quest’estate ogni manifestazione pubblica, dal più grande e imponente evento alla più minuscola sagra di paese, è stata pesantemente condizionata dalle nuove disposizioni in materia di sicurezza. Recinzioni, transennature e percorsi obbligati mai visti prima hanno fatto la loro comparsa in eventi come sagre, esibizioni di gruppetti rock locali, rievocazioni medievali e, più in generale, in manifestazioni in cui fino ad oggi il più alto rischio era cadere a faccia in giù per una sbronza colossale. Nelle città sono comparsi blocchi di cemento e fioriere a protezione di aree pedonali e in grandi manifestazioni fino ad ora a ingresso libero è stato necessario imporre un accesso limitato a un determinato numero di persone (io ad esempio, il giorno di san Giovanni, pur abitando vicinissimo a Ponte Vecchio, sono uscito tardi di casa e non ho potuto vedere i fuochi dai lungarni come tutti gli anni).
Misure pesanti che hanno stravolto calendari, costretto le organizzazioni a cancellare e a rivedere alla bell’e meglio programmi meticolosamente assemblati da mesi. E che, nel futuro prossimo, incideranno ancora di più. La sicurezza, inutile sottolinearlo, ha un costo spesso molto elevato. Costi che se grandi manifestazioni come, per esempio, il palio di Siena, i fuochi di San Giovanni o i grandi concerti possono affrontare, risultano decisamente insostenibili per quelle migliaia di feste di paese che si reggono quasi esclusivamente su pochissimi contributi e tantissimo volontariato. Migliaia di feste che, a causa di tutto questo, rischiano di sparire nello spazio di un niente. Con conseguenze ben più gravi della cancellazione di una festa paesana: cancellata la festa, si cancella anche uno dei principali (e degli ultimi) collanti di un tessuto sociale già pesantemente compromesso.
In questo, soprattutto in questo, i terroristi hanno già vinto.
Così come hanno vinto nel farci pensare, ogni volta che vediamo una transenna in più, a un camion omicida che da un momento all’altro potrebbe sbucare da una via laterale.

Ecco, Barcellona è stato il materializzarsi di queste minacce, la prova concreta di come queste limitazioni con cui abbiamo avuto a che fare tutta l’estate (e che a volte ci hanno fatto indispettire e sbuffare), fossero necessarie e inevitabili. E come forse, anzi sicuramente, non fossero abbastanza. E non saranno abbastanza.
E dopo Barcellona, cosa succede? Cosa succede oggi, adesso, domani e come se ne esce da quest’oggi, da questo adesso e da questo domani?
Difficile, forse impossibile rispondere. La sensazione, frustrante, deprimente e terribile, è di essere stretti, compressi tra interventi inutili e inefficaci, proposte assurde e proclami agghiaccianti che, nella migliore delle ipotesi, lasciano il tutto immutato e, nella peggiore, lo compromettono ulteriormente e definitivamente. Stretti e compressi tra i samurai dei muri e della chiusura, i samurai della grande e imperscrutabile politica internazionale e i samurai del tranquilli, è tutto sotto controllo.

Che sia in atto una guerra – una guerra assolutamente non canonica, dai contorni e dalle modalità completamente nuovi e sconosciuti -, che un gruppo – anch’esso sfuggente, non definibile né riconducibile a nessuna delle altre categorie conosciute in passato – autoelettosi rappresentante di un insieme di popoli, di una cultura e di una religione, abbia dichiarato guerra al cosiddetto mondo occidentale, è assolutamente innegabile. Assurdo non ammetterlo e assurdo anche tentare di ridimensionare la portata globale, e devastante, del fenomeno.
Ma altrettanto assurda è la posizione di chi questa guerra vorrebbe combatterla senza frontiere, senza confini. Altrettanto, anzi più, assurda la posizione di chi come unica ricetta propone l’innalzamento tout court di muri e fili spinati, il respingimento a prescindere, la negazione dell’integrazione, la costruzione di una società chiusa, non inclusiva ed endogena. Colpire e sconfiggere il terrorismo non può, né deve, voler dire colpire e sconfiggere l’accoglienza, l’integrazione, la multietnicità, tutti valori indispensabili e fondamentali che la nostra civiltà ha conquistato – e applicato – a fatica. Sarebbe negare una parte determinante e fondante di quella stessa “libertà” e di quella stessa “civiltà” che le nostre società sbandierano con tanto orgoglio e tanta fierezza. Negare, in sostanza, proprio ciò che i terroristi intendono minare e colpire. E concedergli un’altra clamorosa, e paradossale, vittoria.

Non solo assurdo, ma vergognoso, è chi dall’alto dei suoi ruoli di guida e rappresentanza gioca, quasi sempre per meri interessi elettorali e non per reali radici e convinzioni ideologiche, a buttare benzina sul fuoco, ad alimentare paure e isterismi, a stuzzicare la pancia della massa, a giustificare, sostenere e incentivare le più violente intolleranze verso “lo straniero” in quanto tale, i più biechi e osceni razzismi. E così come è impossibile negare lo stato di guerra ed emergenza che ci troviamo a vivere quotidianamente, altrettanto innegabile è la presenza, qui, fra noi, di un razzismo sempre più becero e vergognoso, in crescita continua ed esponenziale. Un clima di rabbia e violenza cieche che non aiuta di certo. Anzi. La storia ci insegna come tra un razzismo feroce e tout court e una vera e propria guerra etnica e razziale, il passo può essere davvero molto breve. E irreversibile.

Anche il continuo, e ormai insostenibile, ritornello “aiutiamoli a casa loro” è più che assurdo e ben più che paradossale. Non si capisce come e perché dovremmo e potremmo “aiutarli a casa loro”, né gli illustri esegeti di questa linea si preoccupano di spiegarcelo, limitandosi al semplice slogan a effetto.
L’unica cosa certa è che ogni intervento, presente e passato, dell’occidente “a casa loro”, sia stato non solo completamente fallimentare, ma abbia portato ulteriore caos, ulteriore scompiglio, ulteriore impoverimento, ulteriori guerre, ulteriori esodi di massa. Una storia che si ripete identica e con accenti sempre più tragici esattamente da cento anni. Ovvero da quando, alla fine della Prima Guerra Mondiale, Francia e Inghilterra misero le mani sulle ceneri dell’Impero Ottomano disegnando e inventando il medio oriente così come lo conosciamo oggi: una polveriera di miserie e conflitti sempre sul punto di esplodere. Da allora, fino a oggi, una serie inenarrabile di disastri mai risolti.
Impossibile, e cieco, negarlo. Ma altrettanto cieco è anche l’atteggiamento manicheo di chi, magari facendoci una interminabile lezione di storia che parte dalle crociate e sfoggiando una presunta (e insostenibile) superiorità morale e culturale, pretende di dividere – e ridurre – l’analisi del tutto a un mondo nettamente diviso tra buoni e cattivi, vittime e carnefici. Dove la vittima sarebbe il medio oriente e il cattivo l’occidente. Assurdo: il medio oriente, anche il medio oriente, anche il mondo islamico, ha responsabilità oggettive, lampanti e innegabili.

E se l’integrazione, come ricordato, è un valore che non possiamo permetterci di perdere, se la società multietnica è una ricchezza che non dobbiamo smettere di perseguire, assurdo – e deleterio – è anche l’atteggiamento di chi, in nome di una visione del mondo generalmente e riduttivamente, diciamo così, “terzomondista”, vorrebbe l’integrazione a ogni costo, per cui l’integrazione è cosa buona e giusta, a priori e a prescindere.
Occorre, se veramente intendiamo risolvere questa situazione e uscire da questo tunnel, ammettere e prendere atto che questo modello di integrazione – ovvero una integrazione sostanzialmente fasulla, limitata esclusivamente a una generale accoglienza e a un generale inserimento inserimento sul territorio, sospinti a forza e in maniera coatta verso periferie ghetto, e senza la presenza di adeguati controlli e monitoraggi che potessero distinguere e discernere l’immigrazione regolare da quella clandestina – ha fallito. Più o meno completamente, su tutta la linea. Occorre quindi difendere l’integrazione, ma trovare altre strade per applicarla.
Così come occorre prendere atto che emergenza umanitaria, accoglienza, inserimento e integrazione siano quattro situazioni ben distinte, non necessariamente concatenate né necessariamente una prosecuzione dell’altra, ognuna con problematiche diverse. Mescolarle, considerarle un tutt’uno, confonderle (come effettivamente succede di continuo, sia da parte di quelli per cui a solidarietà umanitaria debba seguire automaticamente, e forzatamente, integrazione, sia da parte di quelli per cui il terrorismo è strettamente connesso con gli esodi e con gli sbarchi, e quindi stoppando gli sbarchi si stopperebbe il terrorismo) è non solo riduttivo, ma molto, molto pericoloso.

Un insieme di assurdità da ambo le parti che rendono sempre più utopica la soluzione a tutto questo.
E quale possa essere poi, questa soluzione, non lo so davvero. Né penso sia compito mio trovarla.
Di sicuro, so che questa continua guerra tra samurai ci allontana e ci precipita sempre di più nel caos, nella violenza e nel delirio.
E la sensazione, netta e terribile, è che questi samurai, dopo Barcellona, abbiano affilato ancora di più le loro spade.

#resistenzeRiccardoLestini

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