Don Milani, Rodotà e le elezioni amministrative

Come ampiamente previsto – e come facilmente prevedibile – la tornata estiva di ballottaggi si conclude con l’annunciata catastrofe del PD, che esce sconfitto pressoché ovunque, tanto da solo quanto in compagnia.

Viceversa, netta e indiscutibile è la vittoria del centrodestra, che più o meno dappertutto ha riproposto quella “triplice alleanza” – Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia – che solo un mese fa sembrava accantonata per sempre.

Città simbolo del trionfo del centrodestra niente di meno che quella Genova “barricadera” (la Resistenza, i camalli e la cacciata di Tambroni, il G8… ) sempre amministrata dalla sinistra o dal centrosinistra ininterrottamente dal dopoguerra a oggi. Di quelle che un tempo si chiamavano “città rosse” l’unica inespugnata resta a questo punto Firenze, ma per verificarne la tenuta ci sono ancora due anni di tempo.

Eppure, nonostante risultati tanto netti e inequivocabili, è comunque tutt’altro che semplice – e soprattutto tutt’altro che scontato – “tradurli” in un’ottica di elezioni politiche nazionali. In primis il tutto si è consumato con lo sfondo di un astensionismo record e davvero senza precedenti: anch’esso, sicuramente, previsto e prevedibile, ma la sensazione è che le coalizioni di centrodestra, tornate improvvisamente in auge dopo anni di oblio, abbiano dato fondo a ogni risorsa per una estiva “chiamata alle armi” di massa, e che di conseguenza abbiano ben poco da pescare, o comunque molto meno di altri, nel mare magnum degli astenuti. In secondo luogo, il Movimento 5 Stelle, tagliato fuori da tutti i più importanti ballottaggi, resta comunque un partito che, da solo, raccoglie un numero di consensi pari alla somma (se non di più) di quelli di Lega e Forza Italia; l’altra sensazione è che i pochi pentastellati andati ieri alle urne, in ottica anti PD, abbiano scelto il centrodestra. Impossibile quantificare esattamente questo apporto, che comunque c’è stato e che, altrettanto certamente, alle elezioni politiche non ci sarà.

Ma questi sono tentativi di analisi, proposte di lettura del voto, ipotesi, interpretazioni del termometro della nostra società. Che non trovano né troveranno mai spazio, non certo nell’Italia di oggi, dove sembra davvero che analizzare e comprendere non interessi nessuno. Come già scritto (vedi post di lunedì scorso, “La schizofrenia della politica”), analisi e comprensione del reale sono ormai inutili, soppiantate dall’urlo, dall’esplosione del momento: perciò gli sconfitti passano a rinfacciarsi colpe urlandosi addosso e scatenando lotte sanguinarie e fratricide, i vincitori lanciano sfottò e cori da stadio in caroselli come se avessero vinto la Champions League.

Di proposte, idee, progetti, di tutto ciò che possa anche lontamente essere ricondotto al reale significato della parola “politica” (o anche semplicemente di tutto ciò che possa distinguersi dall’urlo e dalla schizofrenia), neanche l’ombra.

Nel frattempo in quest’Italia di nani, se ne andava – discretamente e garbatamente, così come aveva sempre vissuto – un autentico gigante, ovvero il professor Rodotà, uno dei più grandi, intensi, appassionati e raffinati costituzionalisti della nostra storia. In un simile strepito del nulla e dell’urlo, la morte di un gigante non passa tanto inosservata, quanto diventa, per molti, un’occasione per deriderlo. Senza spiegare bene perché, senza addurre motivi precisi o anche solo vagamente sensati, una parte di opinione pubblica, sui social, si è scagliata contro il professore definendolo “radical chic”. Cosa c’entri Rodotà con il mondo cosiddetto “radical chic” resta difficile da comprendere, ma l’Italia di oggi, l’Italia che non ragiona, non analizza e non riflette su sé stessa è così, smaniosa di gridare addosso a qualcosa o a qualcuno e smaniosa di affibbiare etichette. Così ogni persona che ha una visione del reale leggermente più complessa della divisione tranchant tra buoni e cattivi e tra bene e male, è automaticamente radical chic; così come chi non vuole costruire muri né affondare i barconi dei migranti è automaticamente buonista; così come chiunque denuncia con parole un po’ più accese del normale la corruzione della classe politica è automaticamente populista.

Allo stesso modo, sempre questa settimana, papa Francesco si rendeva protagonista di un gesto, almeno a nostro avviso, importantissimo, a dir poco epocale: la visita a Barbiana, nel Mugello, e le parole – ancora più importanti della visita – spese a favore di Don Milani, altro immenso gigante della più recente storia italiana (qualcuno si è mai chiesto, e lo dico da professore, cosa sarebbe la nostra scuola senza la lezione di Don Milani?), sempre e da sempre ignorato – e contestato – dalla chiesa e, con il gesto di Bergoglio, finalmente riconosciuto. Altro episodio non tanto ignorato, quanto preso a pretesto per gettare ancora fango addosso alla figura di Don Milani.

Curioso che a contestare nel giorno della sua morte Rodotà, raro esempio di coerenza, pulizia e correttezza, siano proprio quelli che urlano invocando un’Italia onesta e pultia, addirittura molti di quelli che lo avevano, quattro anni fa, proposto (e votato) come Presidente della Repubblica.

Così come è curioso che a contestare Don Milani siano gli stessi che vorrebbero una società ispirata ai valori cristiani, ovvero a quei vangeli che in pochi hanno saputo tradurre in un’azione reale e concreta come il piccolo grande prete di Barbiana.

Come scriveva Leopardi?

E i pochi uomini veri che rimangono debbono andarsi a nascondere, come quello che cammina diritto in un paese di zoppi”

Per l’appunto.

#lunediblog

#laSettimanaInTremilaBattute

#resistenzeRiccardoLestini

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