Donna: taci e lasciati stuprare

Oggi possiamo dirlo chiaro e forte: lo stupro non è un reato.
Nella peggiore delle ipotesi è uno sbaglio, una leggerezza, un cedimento a una provocazione.
Nella migliore un vanto, un passo decisivo per guadagnare stima e rispetto assoluti.

Ce lo insegna la storia di Melito, provincia di Reggio Calabria.
La storia di una bambina (una bambina, bene sottolinearlo, non una ragazza, come hanno erroneamente scritto molti giornali) oggi sedicenne e che da quando ha tredici anni, per tre anni, è stata ripetutamente violentata da un branco di maschi. Nove accertati dalle indagini. Ma forse anche di più.
Almeno nove maschi, tutti appartenenti a famiglie “in vista” che per tre anni hanno abusato di una bambina. A turno e insieme. Tre anni, più volte la settimana, la andavano a prendere all’uscita di scuola, la facevano salire in macchina e la portavano nella location scelta per quel giorno. All’aperto, al cimitero o sotto il ponte. Oppure in un appartamento ben nascosto nella collina sopra il paese.
Tutto iniziato con uno del branco che aggancia la bambina e lei che, nell’ingenuità feroce e disperata dei suoi tredici anni, si convince che lui sia il suo fidanzato, che sia questo lo stare insieme, questo l’amore. Poi lui le presenta il branco a cui non può ribellarsi: se lo fa le legano i polsi, la prendono in due, tre, anche quattro per volta… poi la obbligano a pulire e rifare il letto. Se piange, la fanno sentire un’incapace.

Poi, finalmente, il coraggio di denunciare tre anni di violenze e sevizie.
Ma è proprio a questo punto che scopriamo che no, non c’è proprio limite all’orrore, che in questa storia, fatta di moltissimi mostri e pochissimi esseri umani, non è stato solo il branco a stuprarla.
È proprio a questo punto che scopriamo come a stuprarla sia stato l’intero paese di Melito.
Quel paese che ha disertato in massa la fiaccolata indetta per denunciare lo stupro (neanche quattrocento persone su quattordicimila residenti).
Quel paese dove un poliziotto, colui che rappresenta e garantisce la legalità per conto dello Stato, consiglia al fratello (uno del branco degli stupratori) di negare ogni cosa e far finta di non ricordare.
Quel paese dove il parroco dice “putroppo c’è molta prostituzione in paese”… capito? Prostituzione… la bimba stuprata definita dal parroco una prostituta e il branco un gruppo di clienti.
Quel paese dove le donne dicono “stiamo dalla parte delle famiglie dei maschi… per come si vestono certe ragazze se la vanno a cercare”.
Quel paese dove la bambina è stata definita “una ragazza un po’ movimentata”.
Quel paese dove un altro parroco ha detto che “i ragazzi” sono “vittime allo stesso modo”.

Quindi se le donne stanno orgogliosamente dalla parte dei maschi, se secondo la legge bisogna negare ogni cosa, se secondo la chiesa c’è un problema di prostituzione e gli stupratori sono anche loro vittime, se la cittadinanza nella sua quasi totalità difende e assolve chi per tre anni ha violentato una bambina, lo ripetiamo chiaro e tondo: lo stupro non è più, e forse non è mai stato, un reato.

Una sciocchezza, un gioco, al massimo una bravata. Ma un reato no, non lo è proprio.
Ce lo insegna ulteriormente un’altra storia, risalente a quest’estate ma uscita sui giornali soltanto in questi giorni.
La storia di una diciassettenne in discoteca in riviera, a Rimini, ubriaca fino a essere quasi priva di sensi e stuprata da un uomo nel bagno del locale.
La storia di questa ragazza e delle sue amiche che, visto quanto stava accadendo, non solo non hanno cercato di impedirlo e non hanno chiamato nessuno in loro aiuto, ma hanno filmato la scena col telefonino arrampicandosi dal bagno accanto e poi hanno diffuso il video dello stupro via whatsapp.
Anche lei stuprata non solo da quell’uomo, ma anche dalle sue amiche e da tutti quelli che, di nuovo a centinaia e migliaia, hanno detto che “adesso ci pensa due volte prima di bere”, “una che si sbronza in quel modo se lo merita”, “con quella minigonna da puttana è il minimo che poteva accadere”, “se l’è cercata”.

Perché il reato non è lo stupro, non è la violenza.
Il reato è essere donna.
E che essere donna sia un reato, una terribile colpa da espiare ce lo insegna in maniera definitiva, sempre in questi giorni, la storia atroce di Tiziana Cantone, la ragazza di Napoli morta suicida per non essere riuscita a sopportare il peso della vergogna, il peso della gogna cui è stata sottoposta per mesi per via di un video hard diffuso in rete, in cui consuma un rapporto orale con il suo amante.
Anche questo è stato uno stupro.
Uno stupro l’aver diffuso quel video intimo, quel gioco a due, senza il suo permesso.
Uno stupro la valanga di insulti che sono piovuti addosso a Tiziana, uno stupro la ferocia di migliaia di maschi e femmine che le hanno vomitato addosso, da tutta Italia, le battute più truci, oscene e le più atroci violenze possibili.
Uno stupro il dover lasciare il suo paese, la sua regione, l’avviare le pratiche per cambiare il cognome.
Uno stupro il suo triste suicidio.

E si possono dire e pensare miliardi di cose su quel video.
Ma tra tutte queste cose che si possono dire e pensare, perché a nessuno viene mai in mente che la ragazza non stava facendo nulla di male, perché nessuno condanna mai chi quel video lo ha diffuso?

Solito discorso: lo stupro non è reato.
L’unico reato è essere donna.
E il mondo non sarà mai salvo finché tra quei miliardi di pensieri e parole ci sarà solo questa merda.

#resistenzeRiccardoLestini

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