La lunga notte di Istambul

Non è per niente facile, a poche ore di distanza, dopo una notte così convulsa, azzardare analisi e commenti di quanto accaduto in Turchia. Soprattutto quando ancora tutta la vicenda – tanto nei dettagli quanto nelle sue linee generali – resta per lo più avvolta nell’incertezza e nella confusione.

Di certo c’è che è andato in scena un tentativo di golpe militare.
Che per qualche ora le forze dei colonnelli golpisti hanno tenuto sotto controllo i principali media nazionali, bloccato i trasporti, istituito legge marziale e coprifuoco.
E che, dopo una battaglia cruenta tra golpisti e lealisti, che ha lasciato sul campo – pare – circa 200 vittime e oltre 1000 feriti, il colpo di stato è fallito e il legittimo governo di Erdogan ha ripreso il pieno controllo del paese.

Oggi, davanti al fallimento del golpe, al rientrato pericolo e al nulla di fatto nella sostanza e nella facciata, domina il sollievo della comunità internazionale tutta, dall’Europa alla Nato alla Russia. Un sollievo che però non ci spiega quanto accaduto e rischia di minimizzare il tutto, di archiviarlo frettolosamente.

E fermo restando che davanti a un tentativo di colpo di stato (anche se in un paese, la Turchia, tristemente avvezza nell’ultimo secolo a simili avvenimenti), a un principio di guerra civile e a una battaglia che, pur nella sua brevità, ha avuto comunque un prezzo notevole in termini di vite umane, non c’è mai niente da minimizzare, in questo particolare momento storico la situazione appare ancor più delicata e complicata. E quanto accaduto ieri, potenzialmente ancor più grave e drammatico.

In questo enorme gigante dai piedi d’argilla che è oggi l’Europa, stretta da una crisi economica di fatto senza fine, priva di guida e compattezza politica, costantemente minacciata da un terrorismo che mai è apparso così radicato nelle sue strutture sociali, invisibile, imprevedibile e imprendibile al tempo stesso, la Turchia gioca un ruolo politico, strategico, economico e sociale determinante per i vari equilibri internazionali tra Europa, Usa, Russia e medioriente.
Tragicamente ambigua eppure indispensabile, la Turchia è lo snodo di accordi precari del flusso di migranti, esuli e rifugiati tra tutto il medioriente e l’Europa, lo snodo logistico della guerra al sedicente Stato Islamico, lo snodo diplomatico di un possibile riavvicinamento dei rapporti tra Usa e Russia. Nonché teatro, in questi ultimi mesi, del più alto numero di attentati (e di vittime) di matrice islamica.
Va da sé che una qualsiasi destabilizzazione della Turchia avrebbe potuto avere, o potrebbe avere, in questo momento, conseguenze imprevedibili in questo complesso, complessissimo scacchiere internazionale sempre più simile ad una minacciosissima polveriera.
Per questo, al di là delle dichiarazioni di sollievo dei principali governi, avremmo l’obbligo, prima di ogni altra cosa, di sapere e capire cosa sia realmente successo (e cosa stia realmente accadendo).

Non sono in pochi a sostenere sia stato lo stesso Erdogan, se non proprio a ordire quanto meno a favorire, il colpo di stato: fortemente indebolito e con un’opposizione sempre più forte, per riacquistare credito, credibilità e forza, per Erdogan e il suo governo non ci poteva davvero essere niente di meglio che impedire un tentativo di colpo di stato.
Ma al di là delle tesi complottiste (ad ogni modo, almeno in questo caso, non completamente assurde né campate in aria), l’esercito, o almeno parte di esso, avrebbe avuto ben più di una concreta motivazione per chiamare l’insurrezione. Da sempre custodi del “laicismo” della costituzione di Ataturk, da molto tempo le più alte sfere militari turche mostrano evidenti mai celati segni d’insofferenza verso la svolta “islamista” della politica di Erdogan (ricordiamo, in un primo momento, le forti ambiguità del governo di Ankara nei confronti dell’Isis). Le scuse a Putin per il recente incidente aereo (da leggere come un avvicinamento economico alla Russia e un conseguente allontanamento dalle politiche dell’Unione Europea), sarebbero state – assieme al progetto di riforma costituzionale in senso fortemente presidenzialista – la goccia a far traboccare il vaso e a far scattare il golpe.
Da parte sua, in queste ultime ore, Erdogan rilancia, denunciando come vera e propria mente del golpe il religioso islamico Fethullah Gulen, che vive in esilio negli Usa dal 1999. Usa, sempre in queste ore, dichiaratamente accusati dal premier turco: “Un Paese che ospita quest’uomo non è amico della Turchia”. Per il governo americano è Kerry a parlare, dichiarandosi pronto ad aiutare in ogni modo la Turchia, purché vengano mostrate prove evidenti del coinvolgimento di Gulen nel colpo di stato. Un ulteriore tensione con gli Usa da leggere, forse, come un ulteriore passo della Turchia verso Mosca.

Una situazione che, in definitiva, resta tutt’altro che chiara, ma che da qualunque parte, da qualunque fumosa ipotesi la si guardi, sembra riproporre, almeno a grandi linee, lo stesso scenario: una traballante e pericolosissima polveriera sull’asse del gelo economico-politico-militare tra Washington e Mosca, nonché sul doppio binario, per l’occidente, della lotta senza quartiere al terrorismo e dei delicati e indispensabili rapporti economici e diplomatici con il medioriente.
E con la Turchia, come ai tempi del sultanato e della battaglia di Lepanto, snodo e crocevia di ogni equilibrio.
E all’epoca, non finì affatto bene.

‪#‎resistenzeRiccardoLestini‬

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