Genova 2001: la vita quindici anni fa, la mia generazione e il giorno in cui il mondo cambiò per sempre

Quindici anni fa era imminente il salto nell’euro e nella moneta unica, ma ancora si pensava – e soprattutto si pagava – in lire.

Quindici anni fa i jukebox mandavano dalla mattina alla sera “Io e la mia signorina” e “Dammi tre parole”, ma le casse dei furgoncini, durante i cortei, sparavano a tutto volume gli Ska-P con “El vals del obrero”, l’immortale “Bella Ciao” nella versione dei Modena City Ramblers, Manu Chao che aveva appena pubblicato “Me gustas tu”, anche se da quelle parti, manifestazioni e dintorni, si continuava a preferire “Mano Negra” e “Clandestino”.

Quindici anni fa quasi tutti i computer si connettevano a internet con un modem remoto che faceva un suono buffo, metallico, a volte interminabile. E per caricare un video o un file audio si poteva morire di vecchiaia.

Quindici anni fa gli smartphone non esistevano. Con il telefonino – che ancora quasi tutti chiamavamo cellulare – ci si telefonava e basta. Ci si mandavano gli sms (a pagamento e con il limite di 260 caratteri). E, al limite, chi aveva il Nokia, ci giocava a snake. Ma le batterie, diosanto, duravano almeno due giorni.

Quindici fa c’era la mia generazione.

Scossa, scombinata, scissa, irrimediabilmente irrisolta tra un “vecchio” mondo visto e vissuto veramente solo di sfuggita tra infanzia e adolescenza ma allo stesso tempo radicato nell’animo e nella testa, e un “nuovo” mondo visto e vissuto nella sua nascita eppure sconosciuto e incomprensibile.

C’era la mia generazione, con tutto e per tutto quel che significa.

E c’era Lapo, Silvio, Alessandra, Claudio, Elena, Angelica, Mariella, Lisa, Martina, Gianluca, Giovanni, Sandro, Federico, Margherita… e c’ero io, c’ero anch’io, anch’io scosso, scombinato, scisso, irrisolto.

E alla mia generazione, o almeno quella parte dove c’era tutta quella gente e dove c’ero anch’io, quindici anni fa il futuro, quel futuro che ci stavano proponendo e il mondo come stava diventando, andava molto più che stretto, non piaceva, non piaceva per niente.

Per questo quindici anni fa la mia generazione, o almeno quella parte dove c’era tutta quella gente e dove c’ero anch’io, scese in piazza, in tutto il mondo e per tutto il mondo, perché era di tutto il mondo, del futuro di tutto il mondo, che si stava parlando.

Quindici anni c’era la mia generazione che scendeva in piazza.

La mia generazione in piazza a Seattle, a Napoli, a Goteborg.

La mia generazione che non aveva mai avuto nomi (“x generation”, al massimo, “figli di nessuno”, al limite) e che d’improvviso fu ribattezzata in mille modi: il popolo di Seattle, i no global, le tute bianche, i disobbedienti.

Oggi di quindici anni fa restano queste etichette, qualche slogan e poco altro. Restano poi immagini di fumogeni, scontri con la polizia. Restano le urla e le accuse nei nostri confronti: “delinquenti”, “criminali”, “sfasciavetrine”. Resta qualche paragrafo in fondo ai volumi più aggiornati dei manuali di storia e resta una parola di cui oggi tutti sembrano ignorare il significato reale: “globalizzazione”.

Eppure c’erano motivi profondi, immensi, giganteschi per cui la mia generazione quindici anni fa scese in piazza.

C’era un’enormità universale a spingerci in quelle piazze, quindici anni fa.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe progressivamente ristretto le nostre libertà individuali, progressivamente ristretto gli spazi di incontro e confronto, progressivamente ristretto gli spazi della libertà di espressione, gli spazi del dissenso, della protesta, della manifestazione.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe creato società più rigide e autoritarie, che avrebbe portato a una progressiva perdita dei nostri diritti, a un generale inasprimento ed esasperazione del controllo sul privato dei singoli cittadini.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe inasprito i conflitti, allargato la forbice tra ricchi e poveri, tra nord e sud, che avrebbe creato il terreno più fertile possibile per il terrorismo mondiale.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe portato a uno stato mondiale di guerra permanente.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe portato a una crescita impensabile dello sfruttamento del sud del mondo, a una diminuzione vertiginosa dei salari, alla chiusura delle imprese, alla perdita dei diritti dei lavoratori, al licenziamento sempre più facile, al precariato sempre più eterno, allo svuotamento del diritto di sciopero e di lotta collettiva, alla stessa cancellazione del senso ultimo del termine “collettivo”.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe avvelenato i nostri cibi e i nostri organismi, avvelenato la nostra aria, distrutto il nostro ambiente.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe distrutto la piccola economia, la pluralità e la libertà d’impresa concentrando tutto il potere in poche, pochissime, multinazionali.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe distrutto la cultura locale, il bello del localismo, il bello del particolare, a favore della grigia omologazione su scala mondiale.

Quindici anni fa la mia generazione scese in piazza perché pensava che quel tipo di globalizzazione avrebbe causato una crisi economica spaventosa che avrebbe impoverito chiunque e da cui sarebbe stato impossibile uscire.

Quindici anni fa la mia generazione era scossa, scombinata, scissa e irrisolta.

Ma, visto come sono andate le cose, visto come stanno le cose oggi, quindici anni fa, la mia generazione aveva ragione.

E fu per tutto questo e per molto altro ancora che quindici anni fa, a luglio, la mia generazione, prese treni e pullman e, più o meno da tutto il mondo, si diede appuntamento come una marea vociante e colorata proprio qui, a Genova. Senza sapere che proprio qui, a Genova, in quei giorni di luglio, quindici anni fa, il mondo sarebbe cambiato davvero…

Così no, quindici anni fa la mia generazione non lo sapeva, non lo sapeva proprio che in quei giorni di luglio, a Genova, tra afa e nuvole cariche di pioggia e brezza dal lungomare a schiaffeggiare gli zigomi, sarebbe cambiato il mondo.

Non lo sapeva, ma lo avrebbe capito presto.

Di sicuro subito, all’istante, quindici anni fa, la mia generazione capì che sarebbero cambiate le nostre vite. Che saremmo cambiati noi, noi trecentomila che eravamo lì, tra afa e nuvole di pioggia e brezza dal lungomare a schiaffeggiarci gli zigomi.

Cambiati, stravolti, rivoltati.

E non poteva essere altrimenti. Perché noi, noi trecentomila che quindici anni fa eravamo lì, l’abbiamo vista con i nostri occhi la più grande e gigantesca sospensione dello stato di diritto della storia dell’Italia repubblicana.

Vista con i nostri occhi, sentita sulla nostra pelle, respirata nell’odore acre dei lacrimogeni.

Ascoltata nelle orecchie ogni volta che la nostra stessa voce o quella di un compagno che ci stava accanto ripeteva come un mantra “dio mio non è possibile”, oppure, sempre come un mantra, chiedeva “perché”.

Visto, sentito e vissuto le cariche, le botte, il sangue, le torture, gli spari.

Vista, sentita e vissuta la paura, una volta finita l’incubo, che nessuno ci avrebbe mai potuto credere.

Visto, sentito e vissuto l’orrore di essere carne al macello, vittime predestinate di una mattanza decisa a tavolino.

Perché ognuno può poi vederlo e intenderlo come vuole, il massacro di venerdì 20 luglio.

Resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che i pacifisti vittime del primo massacro di giornata in piazza Manin NON stavano attaccando le forze dell’ordine né turbando l’ordine pubblico, ma semplicemente protendevano verso i confini della Zona Rossa mani dipinte di bianco.

Resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che nessuno voleva violare armato le barriere della Zona Rossa, e che le cosiddette “risposte alle violazioni” furono cariche sconsiderate a violazioni simboliche come palloncini e aeroplanini colorati, mazzi di fiori oppure quello splendido 65enne in barba bianca che a mani alzate e pantaloni di tela bianchi, apre un varco nella grata di piazza Danta.

Resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che nel fulcro delle battaglie e degli arresti di giornata, vale a dire via Tolemaide, nel corteo delle Tute Bianche, NESSUNO, ed è bene ripetere NESSUNO dei manifestanti DIEDE INIZIO AGLI SCONTRI, ma che quegli scontri (protratti poi PER TUTTO IL POMERIGGIO, dai quali poi scaturì anche il disastro di Piazza Alimonda) furono scatenati da una INIZIATIVA UNILATERALE e, a tutt’oggi, IMMOTIVATA, delle Forze dell’Ordine (il tutto nonostante, tra i leader delle Tute Bianche e le Forze dell’Ordine preesistesse un accordo per consentire ai manifestanti una INVASIONE SIMBOLICA della Zona Rossa).

Perché ognuno può poi vedere e intendere come vuole pure il massacro di sabato 21 luglio, le torture inflitte ai manifestanti arrestati e la mattanza della scuola Diaz.

Resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che il grande corteo dei 300mila, sul lungomare, all’altezza di piazzale Kennedy, fu smembrato dalle forze dell’ordine d’improvviso, in maniera INSENSATA (gli scontri non erano DENTRO il corteo) e di nuovo IMMOTIVATA, che manifestanti assolutamente pacifici furono inseguiti, arrestati e pestati a sangue, se non ridotti in fin di vita, SENZA ALCUN MOTIVO VALIDO o EFFETTIVO.

Resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile come degli oltre CINQUECENTO ARRESTATI (la maggior parte dei quali “deportati” a Bolzaneto), solo per VENTI di loro è stato possibile confermare l’arresto nei giorni successivi (poi anch’essi scarcerati per insufficienza di prove dal tribunale del riesame).

E resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che gli oltre cinquecento arrestati, tra BOLZANETO e FORTE SAN GIULIANO, siano stati sottoposti a TORTURE IN PIENA REGOLA, tra cui si ricordano: piercing strappati con l’ombelico, privazione del sonno, pestaggi di gruppo, rimozione di fratture già ingessate, vessazioni fisiche e psicologiche continue, scarnificazione di ferite aperte, minacce di stupro con i manganelli, suonerie con inni fascisti fatte ascoltare di continuo, umiliazioni alle ragazze con le mestruazioni, minacce di morte con pistole puntate alla tempia…

E resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che ben più degli oltre cinquecento arrestati hanno riportato ferite e traumi pazzeschi, dalle ferite lacero contuse al capo fino a 12cm alla perforazione del polmone, dalle ecchimosi sparse lungo tutto il corpo fino alla lesione delle vertebre, dalle ustioni alle lesioni interne a milza e fegato.

E resta tuttavia certo, oggettivo, fuori da ogni ragionevole dubbio, dimostrato, incontestabile e incontrovertibile che non C’E’ ALCUNA GIUSTIFICAZIONE POSSIBILE PER QUANTO ACCADUTO ALL’INTERNO DELLA SCUOLA DIAZ, un blitz assurdo in cui CENTINAIA DI POLIZIOTTI SI SONO SCATENATI NELLA CERTEZZA DELL’IMPUNITA’ SFOGANDO LE PIU’ ATROCI E REITERATE VIOLENZE SU MANIFESTANTI INERMI E INNOCENTI.

Il giornalista e amico Lorenzo Guadagnucci, che nell’inferno della Diaz purtroppo c’è stato, nel suo libro “Distratti dalla libertà” (2003, Derive e Approdi), lo aveva detto e chiesto: e se Genova fosse stata una prova? La prova per testare un’idea di società più autoritaria e meno democratica, dove gli spazi al dissenso e allo stesso dialogo vengono progressivamente negati a favore di un controllo e di un ricorso all’uso della forza sempre più sistematici, di un consenso silenzioso e diffuso, di un silenzioso assenso di massa?

Lo aveva chiesto, ma nessuno gli ha mai risposto.

Perché a noi, generazione di Genova, in pochi ci hanno davvero risposto e quasi nessuno ci ha mai realmente creduto.

Eppure, anche se molti continuano a non volerlo sapere nemmeno adesso, il mondo, il mondo di oggi, soprattutto la sua parte peggiore, è cambiato allora e lì, quindici anni fa, giornate di luglio, Genova.

Da lì, da Genova, quindici anni fa, è iniziato il progressivo restringimento delle nostre libertà individuali, degli spazi di incontro e confronto, degli spazi della libertà di espressione, degli spazi del dissenso e della protesta. Proprio come denunciavamo e proprio come è stato.

Da lì, da Genova, quindici anni fa, ha preso piede, in nome di una astratta “sicurezza”, un progressivo autoritarismo delle nostre democrazie, con le perdita dei nostri diritti più elementari. Proprio come denunciavamo e proprio come è stato.

Da lì, da Genova, quindici anni fa, il mondo è diventato una polveriera: l’11 settembre, con l’inizio di una guerra permanente e senza frontiere, con una frattura insanabile tra nord e sud, ricchi e poveri, con la creazione del terreno più ideale per il terrorismo internazionale, era lì dietro l’angolo. E non solo non è ancora finito, ma pare che nelle sue conseguenze più tragiche e sanguinose debba ancora cominciare. Proprio come denunciavamo e proprio come è stato.

Da lì, da Genova, quindici anni fa, è iniziata la distruzione sistematica del diritto al lavoro, iniziato il concetto di precariato a vita, la distruzione delle economie e delle culture locali a favore delle multinazionali criminali. Da lì, da Genova, quindici anni fa, è iniziata una crisi economica drammatica e irreversibile. Proprio come denunciavamo e proprio come è stato.

Grottesco e paradossale come oggi non ci sia angolo di mondo in cui chiunque non batta il pugno contro l’impoverimento dei salari, contro il potere sconfinato delle banche, la disoccupazione e la crisi economica apparentemente irreversibili.

Peccato che tutti questi odierni battitori di pugni non ci abbiano dato ascolto, quindici anni fa.

Perché quindici anni fa, lo si voglia o no, avevamo ragione noi.

E avevamo ragione pure se, oltre alla “gloria” di essere stati lungimiranti e dalla parte del giusto, ci è stata negata ogni altra cosa.

A partire dalla verità su quelle giornate di luglio, che ancora in molti si ostinano a raccontare nella versione assurda di un manipolo di facinorosi che mossi da chissà quale ideale distorto avrebbero deliberatamente messo a ferro e fuoco una città.

E per finire con la giustizia, che nessuno ci ha mai realmente concesso.

Perché per noi, che di Genova abbiamo portato a lungo i segni sulla pelle e che ancora ne portiamo i segni nell’animo, giustizia vera non ci è mai stata.

Per la tragedia assurda della scuola Diaz, ci sono voluti UNDICI ANNI perché la giustizia riuscisse a mettere nero su bianco come andarono effettivamente le cose.

Undici anni in cui abbiamo visto i PRINCIPALI RESPONSABILI DEL MASSACRO FARE FULGIDE E SFOLGORANTI CARRIERE POLITICHE, sia con governi di destra che con governi di sinistra, undici anni in cui NESSUNO HA PAGATO NEMMENO DOPO L’ACCERTAMENTO DEI FATTI, VISTO CHE TUTTI I REATI SONO CADUTI IN PRESCRIZIONE.

Undici anni in cui I PICCHIATORI e I MASSACRATORI sono rimasti IMPUNITI, in quanto IRRICONOSCIBILI (e undici anni in cui ci hanno riso tutti in faccia quando chiedevamo di dotare le forze dell’ordine di codici di riconoscimento affinché tutto questo non si ripetesse mai più).

Per la tragedia altrettanto assurda delle torture di Bolzaneto c’è voluto altrettanto. Un tempo lunghissimo in cui, ancora, HANNO PAGATO IN POCHISSIMI E CON PENE SPROPORZIONATO ALL’ATROCITA’ DI QUANTO COMPIUTO (e ancora oggi ci ridono in faccia perché chiediamo l’introduzione del REATO DI TORTURA).

Per piazza Alimonda invece, nonostante LE MILLE INCONGRUENZE e le MILLE ASSURDITA’ della “ricostruzione ufficiale”, NON SI E’ MAI CELEBRATO NEMMENO UN PROCESSO.

E non si celebrerà mai, visto che della morte assurda e atroce di un ragazzo di 23 anni, non importa davvero niente a nessuno.

Solo quelle poche decine di manifestanti processati per gli incidenti di piazza hanno pagato, con PENE TUTTAVIA SPROPORZIONATE IN ECCESSO, PER LE QUALI SONO STATI RIPRISTINATI REATI COME “DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO” IN DISUSO DAL VENTENNIO FASCISTA.

Così quindici anni dopo a Genova è ancora notte.

Ancora notte in piazza Alimonda, alla scuola Diaz, a Bolzaneto, in via Tolemaide, in piazza Manin. Ancora notte per il giorno in cui nacque l’idea di mondo che oggi siamo costretti a vivere.

Eppure, tra le pieghe di questa notte che ci avvolge da quindici anni, nel ricordo di quello sparo che in piazza Alimonda ci uccise tutti quanti e uccise la nostra giovinezza, voglio chiudere questo lungo racconto con un’immagine bella, piena e pulita. L’immagine dei nostri sorrisi giovani, giovanissimi, che appena scesi da treni e pullman ci accampiamo al Carlini o allo Sciolba per dare inizio a quella settimana in cui sarebbero cambiati il mondo e le nostre vite.

E dove malgrado tutto riuscimmo a trovare un senso alla parola “generazione”.

Buon 21 luglio, compagni.

#resistenzeRiccardoLestini

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