Il voto nelle città (un’analisi in cinque punti)

Dopo la solita notte insonne con la consueta rincorsa di previsioni, quadri parziali, conferme e smentite, ancora assonnati e intontiti (l’unico in Italia a essere ancora fresco come una rosa pare essere Enrico Mentana, pur se ininterrottamente in onda per qualcosa come dieci ore), con finalmente i dati definitivi a disposizione (anche a Trieste, con lo spoglio iniziato solo stamattina, è già stato scrutinato oltre il 50% delle sezioni), proviamo una prima analisi a caldo. Analisi non proprio facilissima, vista la pluralità di questioni che sono entrate, opportunamente o no, in questa tornata elettorale (impronta ben poco locale e assai nazionale, sondaggio indiretto sulla tenuta del governo, distribuzione geografica del voto, rispetto delle previsioni e via dicendo), ma ci proviamo lo stesso.

Fermo restando che le cifre nude e pure da sole non bastano, ma vanno lette e interpretate, e fermo restando che in quasi tutte le partite che contano nessuno è stato ancora eletto e il risultato definitivo è rimandato ai ballottaggi tra due settimane, il risultato generale di questo primo turno delinea un quadro decisamente chiaro di vincitori e vinti.

La vittoria politica pende tutta, in maniera abbastanza netta e inequivocabile, dalla parte del Movimento Cinque Stelle.
Partiamo da Roma, la partita se non la più importante, di certo quella più attesa. Vero che la Raggi era data per super favorita da settimane, e di conseguenza non ritrovarsi in testa sarebbe stata percepita, dall’esterno e dall’interno, come una delusione più che cocente. Ma è vero che superare il 35% dei voti, e soprattutto staccare il candidato PD di oltre dieci punti, è un risultato davvero notevole, se non addirittura straordinario. I ballottaggi, si sa, possono nascondere insidie imprevedibili, a volte hanno visto rimonte clamorose e inaspettate, ma in questo caso la vittoria della Raggi, se non proprio blindata, è molto più che a portata di mano. Più del consistente vantaggio su Giachetti è – e sarà – determinante il fatto che attorno al candidato PD non pare proprio possibile una convergenza di altre forze politiche rimaste escluse dal ballottaggio (forse la gran parte dei voti di Marchini, ma non paiono affatto numeri decisivi).
Tuttavia, impresa romana a parte, a noi pare di gran lunga più importante, per il Movimento Cinque Stelle, il risultato di Torino. Una città che da quindici anni non conosceva ballottaggio, dove la riconferma al primo turno del sindaco uscente era data abbastanza per scontata, il Movimento – ulteriormente rafforzato da quello che ritengo essere il miglior candidato in campo di tutta quanta la tornata, vale a dire Chiara Appendino – non solo ha costretto Fassino al ballottaggio, ma anche sfondato quota 30% di consensi, affermandosi come primo partito della città. E nonostante gli 11 punti di ritardo della Appendino nei confronti di Fassino, in questo caso l’impresa, pur se difficilissima, è comunque possibile, visto che – contrariamente a quanto presumibilmente accadrà a Roma con Giachetti – è più che probabile che sulla candidata pentastellata vadano a convergere i voti delle altre forze politiche.
Ma al di là di calcoli e previsioni, riteniamo Torino il vero risultato storico del Movimento perché avvenuto al termine di una campagna elettorale sostanzialmente lontana dai riflettori della politica nazionale, pacata e ragionata, lontanissima dalle schizofrenie romane, completamente incentrata (come dovrebbe essere in tutte le amministrative) sulle tematiche territoriali.
Un risultato che quindi dovrebbe mettere definitivamente a tacere il ritornello che da anni liquida il voto ai Cinque Stelle come mero voto di protesta, e che, dati alla mano, impone e obbliga tutti a guardare il Movimento per ciò che realmente è diventato al termine del suo processo di formazione: una forza politica a tutti gli effetti, forte, con contenuti precisi e radicata sul territorio.
In questo senso, indipendentemente da come andranno i ballottaggi, il Movimento Cinque Stelle ha già vinto.

Viceversa, l’asticella della sconfitta pende tutta dalla parte del Partito Democratico.
Occorre certamente essere cauti. Per quanto queste amministrative siano state caricate di significato nazionale, non sarebbe corretto tradurre alla lettera questi risultati in termini politici-nazionali. Ma altrettanto scorretto sarebbe cercare di nascondere la verità oggettiva: il PD ha perso, sotto alcuni di vista in maniera sonora e clamorosa. E, se non proprio di una debacle, si tratta comunque di una sconfitta bruciante che impone al partito di governo ben più di una riflessione.
A Roma va al ballottaggio per il rotto della cuffia, dopo un’estenuante battaglia all’ultimo voto con Giorgia Meloni. Dopo “l’affaire” Marino, il PD non poteva puntare ad altro se non al ballottaggio, ma di certo il distacco dalla Raggi, e l’incollatura della Meloni, sono assolutamente superiori alla più catastrofica delle previsioni.
A Torino e a Bologna si attendeva la vittoria al primo turno: in entrambi i casi, il PD è stato costretto al ballottaggio, dai Cinque Stelle a Torino e dal centrodestra a Bologna. In entrambi i casi il vantaggio è considerevole, ma il ballottaggio è molto più che insidioso, visto come l’effetto anti-PD farà presumibilmente da collante, aggregando attorno agli avversari voti inattesi e trasversali. Inoltre, il 41% di Fassino e il 39% di Merola, raccontano di un’emorragia di circa 100mila voti rispetto alle precedenti tornate. Non proprio il massimo per chi sta chiedendo agli elettori una riconferma.
A Napoli addirittura, resta fuori dalla competizione, lasciando il ballottaggio all’odiato outsider De Magistris e al centrodestra. A Milano, dove schiera il candidato più renziano della partita, il deus ex machina dell’avventura di Expo Sala, finisce al più imprevedibile dei ballottaggi, con un centrodestra incollato a una distanza di appena 0,9%. Meno di una manciata di voti.
Al primo turno, nelle principali città, vince solo a Cagliari. Ma anche in questo caso la vittoria è tutt’altro che piena, visto che a essere riconfermato è un candidato di Sel.
Per mitigare e tamponare questo disastro il PD, tra quindici giorni, dovrebbe: non vincere, ma stravincere a Bologna e a Torino, vincere a Milano e contemporaneamente perdere con meno di 8 punti di distacco a Roma.
Molto più che un’impresa.

Se il PD affonda, meglio non sta il centrodestra. L’unico risultato degno di nota è quello milanese, dove grazie a una candidatura azzeccata – Parisi – e a una colazione stranamente unita, può oggettivamente puntare alla vittoria. Il risultato di Napoli (così come quello di Bologna) è invece assai trascurabile: arriva al ballottaggio, ma con meno della metà dei voti di De Magistris.
Ma più che sui numeri e sui singoli risultati, la crisi del centrodestra la si fotografa con un’analisi più approfondita. Visto il risultato di Milano e, in maniera opposta, quello di Roma, in molti hanno evidenziato come il centrodestra vinca dove riesce a restare unito. A Milano quindi sarebbe andato bene grazie all’unità mentre a Roma sarebbe andato male per colpa delle divisioni.
All’apparenza, effettivamente, è così. In realtà il dato veramente inoppugnabile è che il centrodestra, allo stato attuale delle cose, è naturalmente diviso, mentre la sua unità è una forzatura.
Forza Italia da una parte, Lega e Fratelli d’Italia dall’altra e Ncd dall’altra ancora, sono al momento tre forza assolutamente inconciliabili, con programmi, priorità e progetti completamente diversi.
Tradotto: a Milano non va al ballottaggio il centrodestra unito, ma una semplice somma di voti che, qualora vincesse, avrebbe serie difficoltà nell’amministrare un gruppo così eterogeneo.
Ricorda quasi, il centrodestra attuale, l’Ulivo che fu, quando vinceva non per unità d’intenti, ma per la mera somma tra centro, sinistra e centrosinistra, all’epoca forze distinti e difficilmente aggregabili.

In chiusura, la Sinistra. Ovvero ciò che sta, o dovrebbe stare, a sinistra del PD.
Tolto il caso De Magistris (dove la sinistra non vince tramite un reale laboratorio politico, ma solo ed esclusivamente per la fiducia accreditata al singolo candidato) e il caso Zedda (dove comunque il candidato di Sel è sostenuto anche dal PD), la sinistra non è che perde, ma, più semplicemente, non esiste. A Roma come a Torino, porta a casa risultati così risibili da essere, già oggi, completamente ininfluenti ai fini dei ballottaggi.
Da quelle parti, manca oggettivamente tutto. Non solo candidati credibili, ma soprattutto progetti reali, concreti, riconoscibili. Nonché, non da ultimo, un necessario radicamento sul territorio.
Per farla rinascere, se si vuole farla rinascere, occorre una riconsiderazione totale e assoluta di ogni singolo aspetto.
Tradotto: resettare ogni cosa e ripartire da zero.

Ultima cosa: l’affluenza al voto.
Principale argomento di discussione fino alle 23:01 di ieri, quando cioè sono stati resi noti i primi exit poll, è poi scivolato rapidamente nel dimenticatoio.
Resta il fatto che, su base nazionale, quasi un elettore su due ha disertato le urne.
Al di là degli appelli al voto come dovere civico, alla partecipazione, alla necessità di scegliere e non lasciare la scelta agli altri, è chiaro come il sole che c’è un problema serio e complicato alla base.
Un problema che, prima o dopo, andrà seriamente affrontato.
E risolto.

E con questo è tutto. A risentirci dopo i ballottaggi.

#resistenzeRiccardoLestini

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