Il giullare e il buffone (a proposito di Roberto Benigni)

Siamo abituati a pensare che siano la stessa cosa, a confonderli, sovrapporli, a ritenerli l’uno il sinonimo dell’altro.
In realtà nella storia del teatro – e nella storia materiale in genere – giullare e buffone sono due cose completamente diverse, se non addirittura opposte, inconciliabili, sia per ciò che facevano – e fanno – in scena, sia per il posto che occupavano – e occupano – nella società.

Il giullare è artista di piazza e di popolo, il suo registro principale è la satira – feroce, irriverente, tagliente, caustica, che usa non per prendere in giro, ma proprio per denunciare i soprusi, le ingiustizie, le corruzioni e gli abusi perpetrati dal potere e dall’autorità.
Non “un” potere specifico, non “una” autorità particolare, non “una” parte politica. Ma “tutto” il potere, “tutta” l’autorità, “tutta” la politica, indipendentemente dalla bandiera che sventolano.
Non importa chi abbia commesso l’ingiustizia: il compito, e il volere, del giullare è quello di denunciarla. È quello di inseguire, sempre e comunque, e con l’arma della satira, la verità.
Per questo il giullare è tutto tranne che conciliante, accomodante, “nazionalpopolare” se così si può dire. Per questo il giullare non ha – né può avere – padroni, non risponde agli interessi di niente e di nessuno. Oggi, nella terminologia attuale, lo definiremmo un “artista indipendente”.
Nel medioevo – epoca in cui appunto fiorirono i giullari e l’arte giullaresca – per questo, come si può facilmente immaginare, erano figure continuamente a rischio di denunce, arresti, esili, condanne a morte, torture (ereditata dall’epoca longobarda, rimase ad esempio in uso per lunghissimo tempo la pratica orrenda della “lenguada”, che consisteva nel condannare il giullare a essere appeso per la lingua a un portone attraverso una serie di chiodi).

Il buffone, al contrario, è artista di corte. Stipendiato e protetto da un potente – o da un intero gruppo dirigente, se non addirittura dal sovrano in persona – il suo registro non è la satira, ma la commedia, lo scimmiottamento, l’imitazione innocua, la comicità facile e senza troppi pensieri.
Accade tuttavia – e accade spesso e volentieri – che pure il buffone faccia satira. Ma, a differenza di quella del giullare, è “interessata”. Nel senso che prende di mira esclusivamente la parte avversa al potente, al partito o al sovrano che lo protegge.
In sostanza, il buffone è il gingillo privato del potere, parla in sua gloria e in suo onore, dicendo solo ed esclusivamente ciò che il potere vuole sentirsi dire. Il suo compito è quindi quello di lodare e incensare il potere e contestare e denigrare tutti coloro che si oppongono a esso.
Non a caso nel medioevo, spesso e volentieri, i buffoni all’interno della corte ricoprivano il doppio ruolo di intrattenitori e messaggeri diplomatici del potente di turno (pratica che poi continuerà con i comici della commedia dell’arte in età rinascimentale e post rinascimentale).

Una (credo noiosissima) introduzione storico-teatrale per sottolineare la parabola di Roberto Benigni, che per gran parte della sua illustre carriera si è spacciato giullare quando altro non era che un servile, servilissimo buffone.
Tutto questo è chiaro ed evidente già da anni – molti anni, più o meno dal giorno dopo la consegna dell’Oscar per “La vita è bella” -, anni in cui si è continuamente prestato ad operazioni sempre più patinate e striscianti, sempre in difesa e al servizio, con addosso la maschera ingannevole del poeta-clown che DEVE piacere e stare simpatico al popolo tutto e che di conseguenza quanto dice non può essere messo in discussione, delle logiche più becere e truffaldine del potere: le “lezioni” sull’inno di Mameli e le menzogne calcolate sul Risorgimento, l’assurdo delirio mistico per i dieci comandamenti e via dicendo.
Ma sinceramente, quanto andato in scena ieri, va davvero oltre ogni immaginazione. Dopo aver recitato per anni l’intoccabilità della Costituzione (ma allora c’era Berlusconi a volerla cambiare), ecco che qualche ora prima di andare in scena non solo dichiara il suo Sì al prossimo Referendum (guadagnando di fatto due ore di campagna elettorale in prima serata per milioni di telespettatori, senza nemmeno interruzioni pubblicitarie), ma trasforma il suo spettacolo nella celebrazione della “quasi” intoccabilità della Costituzione.
Di fatto, uno spettacolo ad uso e consumo della riforma costituzionale approntata dal governo.

E tutto questo, oltre a essere oggettivamente assai più che vergognoso, getta molto più di un’ombra su tutta la carriera del comico toscano. Tolti infatti i genuini e sanguigni esordi di Televacca, quando Benigni salì alla ribalta come geniale, ruspante, surreale e stralunato cantore della più truce e caustica provincia toscana, viene da chiedersi: quanto i suoi celebri sproloqui stagione anni 80-anni 90 lanciati contro questo o quel politico, questa o quella legge, questo o quello scandalo, erano dettati da sincera e giullaresca volontà di satira e di denuncia, e quanto invece erano indotti dalla necessità di difendere gli interessi di una parte politica per cui prestava servizio?
E ancora: quando vinse l’Oscar ci fu – prima, durante e dopo – una mobilitazione politica (primo Ulivo al governo, Walter Veltroni ministro della Cultura) in suo sostegno e suffragio senza precedenti: perché lo stesso non accadde quando Massimo Troisi (di cui, tra l’altro e senza che nessuno lo ricordi mai, “La vita è bella” copia pari pari due celebri gag) prese lo stesso numero di nominations? Perché lo stesso non accadde quando, praticamente in contemporanea all’Oscar a Benigni, Dario Fo vinse il Premio Nobel?
E sì che parliamo di Troisi e Fo, non propriamente due artisti di destra…

Certo è che quel mordente di cui parlavamo prima, si era già ampiamente smarrito alla metà degli anni ’80, quando alle bestemmie antipapali preferì la strada più semplice delle innocue commedie degli equivoci. Ma almeno lì, in quel campo, era imbattibile e molto più che esilarante (in pochi, pochissimi, hanno resistito senza scompisciarsi alle gag de “Il piccolo diavolo” o de “Il mostro”).
Poi è venuta “La vita è bella” e il successo planetario.
Poi tutto il resto.
E la maschera del giullare si è dissolta definitivamente svelando il vero (e triste) volto del buffone.

#resistenzeRiccardoLestini

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