“Ma non lo vedi che è pieno di stelle?”

Ho iniziato a lavorare nelle scuole già qualche anno prima di diventare insegnante di lettere, facendo corsi di teatro per bambini e per ragazzi.

Il mio primo incarico in questo senso – correva l’anno 2001, avevo ventiquattro anni e non ero ancora laureato – fu nella scuola dell’infanzia, con una classe di bambini di appena quattro anni.

Nel nostro primo incontro, ovviamente giocando e con l’aiuto di trucchi da mimo e di clownerie, cercai di raccontargli cosa fosse il teatro e cosa fosse un teatro. E cosa volesse dire salire su un palco e fare una recita.

Alla fine, li rimisi a sedere sui banchi e gli chiesi di provare a disegnare un teatro, così come lo avevano capito da quel che ci eravamo detti.

Mentre i bimbi disegnavano, passavo tra i banchi, sbirciavo le loro creazioni, chiedevo, scambiavo rapidi commenti con le loro due maestre.
A un certo punti la mia attenzione fu attratta da una bimba – ricordo ancora il nome, Serena – che con il pennarello, partendo dall’angolino basso, stava dipingendo tutto il foglio di nero.
Un unico, granitico, fondale nero.

Sinceramente inquietato, mi chinai verso di lei e le chiesi: “Ma perché hai fatto il foglio tutto nero?”.
Lei, sgranando i suoi occhioni contro i miei, e indicando con il ditino quei microscopici puntini bianchi lasciati qua e là dalla colorazione imperfetta, rispose: “Ma non lo vedi che è pieno di stelle?”.

Il mio primo giorno dentro una scuola, da insegnante.
E capii subito che tutto quello che avrei potuto insegnare non sarebbe stato niente, proprio niente, rispetto alle immensità che avrei imparato

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