Per salutare Paolo Poli
Niente celebrazioni, niente pomposità, per dire addio all’immenso Paolo Poli. Le detestava. E probabilmente, ovunque adesso si trovi, nel vedere tutti questi cerimoniali in suo onore, si starà facendo delle grasse risate. E ci starà mandando affanculo.
Perciò basta un ciao. E un grazie. Brevi e leggeri come un battito d’ali, come il suo essere più autentico e miracoloso sul palco.
Piuttosto, nel dire addio a questo pezzo gigantesco e insostituibile della nostra Firenze, viene da pensare ad altro.
A come a tutti gli addii ai giganti e mostri sacri che ci hanno lasciati in questi ultimi tempi, allo strazio e alla tristezza naturali, si aggiunga qualcos’altro. Una sorta di sgomento, un senso strano e irrefrenabile di vuoto e di vertigine.
Credo sia la percezione di come, andati loro, resti il deserto. Di come questo mondo attuale non sia capace di proseguire la loro opera di difesa e diffusione della bellezza.
Lo scrivo adesso, mentre la Rai manda materiali d’archivio di programmi televisivi di e con Paolo Poli.
Era la fine degli anni ’70.
E viene da chiedere: e adesso?
E, soprattutto, viene da mettersi davanti agli occhi la foto di Paolo Poli e chiedergli, come Amleto al buffone Yorick, “ma, dove sono le tue beffe?”.