Il teatro sommerso di Pier Paolo Pasolini

A quarant’anni dalla morte dello scrittore, un invito alla (ri)lettura della sua produzione drammaturgica.

Esattamente quarant’anni dopo Pier Paolo Pasolini è ancora brutalmente inchiodato lì, sul triste lungomare di Ostia, un cadavere così straziato da essere scambiato per un “sacco de monnezza” all’alba del massacro.
Ancora lì, imprigionato nei misteri asfissianti di una giustizia inadeguata, incapace di fare anche un solo spicchio di luce in una vicenda tragica come poche, fatta di sole ombre, infiniti perché e pochissime risposte.

Anche a teatro Pasolini resta inchiodato lì, da sempre. Ci è entrato, infatti, s soprattutto come cadavere trasfigurato, sotto forma di mistero italiano, simbolo scandaloso di omissioni e insabbiamenti d’ogni sorta.

Non poteva essere altrimenti. Il tragico e tuttora irrisolto epilogo della parabola artistica ed esistenziale del grande intellettuale friulano si è fatto automaticamente materia ideale per la narrazione teatrale.

Così Pasolini, a teatro, in questi ultimi quarant’anni, è stato più personaggio che autore, protagonista di un numero altissimo e imprecisato di narrazioni della sua morte messe in scena con gli stili più disparati, dando vita tanto a spettacoli eccezionali (tra i tanti ricordo, soprattutto, lo splendido monologo di Fabrizio Gifuni Na specie de cadavere lunghissimo, in scena dal 2004) quanto a trascurabili e raffazzonate operazioni furbesche.

Eppure, nella sterminata e straordinariamente poliedrica produzione pasoliniana, trova spazio anche un consistente corpus teatrale, fatto di sei tragedie e di un Manifesto per un nuovo teatro e che, nonostante negli anni abbia vantato alcuni importanti allestimenti (su tutti Affabulazione diretta e interpretata da Vittorio Gassman e Calderòn con una monumentale regia di Ronconi), resta sostanzialmente ignorato, tanto dagli studi quanto dai repertori.

La problematicità, e la scoperta e provocatoria contraddittorietà di questi testi, oltre a essere tratti distintivi dell’opera omnia di Pasolini, non giustificano di certo tale silenzio e tale disinteresse.

A maggior ragione che le sei tragedie in questione, come del resto quasi tutti gli scritti pasoliniani, pongono temi e questioni straordinariamente, e sorprendentemente, attuali: la tragedia dell’incomunicabilità tra generazioni, propria della società consumistica (Affabulazione), il fallimento di ogni ideale sinceramente rivoluzionario e la realizzazione della vera libertà esclusivamente nella dimensione del sogno (Calderòn, la cui struttura è chiaramente ispirata al capolavoro secentesco di Calderòn de la Barca La vida es sueno), la mercificazione del corpo e del sesso nella società neocapitalista (Orgia).

Ma al di là dell’attualità dei contenuti, il recupero e il disseppellimento del  dimenticato teatro di Pasolini, appare importante anche, forse soprattutto, per le questioni stilistiche e per gli intenti che esso sottende.

Nel già citato Manifesto per un nuovo teatro Pasolini propone e promuove un teatro completamente al di fuori delle logiche borghese di produzione e fruizione dell’arte e della cultura.
Un teatro che lo stesso scrittore definisce “di parola”, dove cioè la parola pura – e quindi il contenuto, il dibattito e la riflessione – sia l’unica protagonista, privo di formalismi, tecnicismi e artifici scenici. Per questo le sei tragedie, scritte tutte nello stesso brevissimo arco di tempo (anno 1966, durante la lunga convalescenza di Pasolini a seguito di un’epatite), sono in versi liberi, prive di didascalie e indicazioni scenografiche, ambientate in scenari volutamente indefiniti, al di là della storia, che pur trattando tematiche e facendo agire personaggi squisitamente contemporanei ricalcano e richiamano l’assoluto senza tempo del mito e della tragedia greca. Un teatro “di parola” quindi, da contrapporre a quelli definiti da Pasolini “della chiacchiera”, vale a dire il dramma borghese, e “dell’urlo”, cioè il teatro d’avanguardia e di rottura che solo in apparenza si oppone alle logiche borghesi, ma che in realtà ne è non solo completamente integrato, ma addirittura è generato da esse. Se infatti il primo nasce dal bisogno borghese dell’accondiscendenza, il secondo nasce dall’altro bisogno, altrettanto borghese, dello scandalo.Uno scandalo creato dalla stessa borghesia per assorbire in essa anche la sua contestazione.

Un teatro “di parola”, infine, che nelle intenzioni di Pasolini avrebbe dovuto trasformare il palcoscenico in una sorta di luogo del dibattito per eccellenza, la stazione di confine con cui l’individuo si riappropriava del proprio pensiero e restituiva centralità al dibattito e alla contestazione. Per questo, per tutto questo, ci pare oggi più che mai urgente rileggere e riproporre la strada drammaturgica indicata da Pasolini.

Oggi viviamo in una società dove la parola si è immiserita, il linguaggio ha perso qualsiasi autenticità, il contenuto ha ceduto orrendamente il passo ai più vuoti artifici dell’apparire, il potere ha fagocitato qualsiasi spazio di libera discussione e dibattito, decidendo come e quando dare risalto e risonanza a scandali creati ad arte. Dove il teatro – e l’arte in genere – troppo spesso rinuncia a farsi strumento critico, sempre più prigioniero dell’urlo e della chiacchiera, sarebbe atto importante e coraggioso.

Un coraggio di cui i nostri palcoscenici hanno disperatamente bisogno.

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