Come smettere di uccidere Pasolini

 

COME SMETTERE DI UCCIDERE PASOLINI
(Pasolini visto da noi)

Se parliamo di Pasolini, aprendo qualsiasi pagina internet in merito, da quella più generalista ed enciclopedica come Wikipedia a quella più specialistica e approfondita, consultando qualsiasi dizionario biografico, leggendo qualsiasi quarta di copertina, nel 99% dei casi troveremo scritta una frase che suona più o meno così: “uno dei più grandi intellettuali del XX secolo”.

Introduzioni e premesse “a pioggia” che pongono il Pasolini scrittore sullo stesso piano – sempre parlando di XX secolo – di Montale, Ungaretti, Pirandello, Svevo, Pavese, Calvino. E quello regista sulla scorta di Rossellini, Fellini, Visconti, De Sica.

Eppure, nonostante questo, nella coscienza letteraria di massima, quella – diciamo così – “nazionalpopolare”, Pasolini non ha lo stesso impatto né, soprattutto, occupa lo stesso spazio degli altri artisti menzionati sopra. Per capirci, il plot di “Ragazzi di vita” non appartiene al bagaglio base di competenze letterarie come quello de “Il fu Mattia Pascal”, né le sequenze di “Accattone” sono presenti nell’immaginario collettivo come quelle di “Roma città aperta” o de “La dolce vita”.

Si potrebbe ragionare a lungo su perché e percome di natura strettamente tenica, stilistica ed espressiva. Ma temo non sia in questioni strettamente “artistiche” che risieda la spiegazione del problema. Perciò, prendiamo un’altra strada. O quanto meno proviamo a imboccarla.

Anzitutto, Pasolini, nonostante la riconosciuta grandezza di cui sopra, non si studia a scuola. Certo, e qui parlo principalmente da insegnante, il ‘900 sia storico sia artistico-letterario, soffre ancora nella scuola italiana una tragica mancanza di serio aggiornamento finendo, nel suo insieme, per essere spesso e volentieri soffocato, trattato in maniera frettolosa e superficiale. Ma nel caso di Pasolini non si tratta di fretta e superficialità, ma di vero e proprio silenzio. Un silenzio non riconducibile alle scelte dei singoli docenti, o almeno non solo a quelle. Quando stavo preparando il concorso pubblico per la cattedra, ricevetti – come tutte le altre decine di migliaia di candidati – le linee guida ministeriali sui programmi che sarebbero stati oggetto dell’ultima prova, quella orale. La quantità di autori del ‘900 prevista da queste linee guida era a dir poco impressionante: c’erano tutti, come se il ministero si fosse dimenticato di operare un minimo di selezione. Tutti, tranne Pasolini. All’epoca, e parliamo ormai di quattro anni fa, scrissi qualche articolo in proposito, feci domande nelle sedi pertinenti, ovviamente senza ricevere risposta alcuna. O meglio, una risposta la ebbi, più volte e sempre quella: “Pasolini è troppo complesso”.

Ecco, credo proprio sia in quel “troppo complesso” che stia il motivo di tutto. In tutti questi anni ogni liquidazione di Pasolini, diciamo così, “dall’alto”, ha seguito questo leit motiv: “troppo complesso”, oppure “troppo contraddittorio”.
La conclusione sarebbe quindi che “Pasolini è stato uno dei più grandi intellettuali italiani del XX secolo, ma non si può studiare né si può affrontare approfonditamente la sua opera in quanto troppo complesso e troppo contraddittorio”. Non serve essere dei critici letterari per capire quanto sia assurdo un simile ragionamento. Montale non è forse complesso? Pavese non è forse contraddittorio? E via dicendo.

Tutto si spiega se entriamo nello specifico della particolare cultura imperante nella nostra epoca, laddove per “nostra epoca” intendo questi ultimi 20-25 anni. Viviamo nell’atto – forse finale, o forse no – di un processo degenerativo che ha preso avvio nel secondo novecento, un progressivo e inesorabile impoverimento di contenuti che si specchia alla perfezione nell’immiserirsi del linguaggio. Oggi, con questo processo portato sostanzialmente a compimento, ci è offerto un mondo che vuole, deve e pretende essere semplice e vuole, deve e pretende la nostra semplicità, semplicità nel pensare, nel parlare e nell’essere. Non però quella semplicità sinonimo di purezza, spontaneità, genuinità, ma una semplicità che significa soltanto “semplicismo”. Ogni cosa, nella nostra epoca, deve essere semplificata, riassunta, ridotta all’osso, purgata da ogni sfumatura, da ogni tonalità di grigio a favore esclusivo di bianchi e di neri. Una semplificazione ossessiva e continua, dove la diversità esiste solo come contrapposizione, dove ogni distinguo è vissuto come una minaccia, un pericolo, dove la ricchezza è sinonimo di perdita di tempo. Dove fermarsi per capire non è concesso.

Allora il “troppo complesso” relativo a Pasolini diventa, nell’ottica appena spiegata, un “troppo pericoloso” o, se si preferisce, un qualcosa di inammissibile per i nostri tempi. Spiegare Pasolini significherebbe entrare in percorsi tortuosi, per niente lineare, muoversi tra spine di contraddizioni che sono la base della nostra storia, l’origine del mondo che abbiamo ereditato. Spiegare Pasolini significherebbe entrare nella frattura insanabile tra passione e ideologia, leggere e comprendere l’origine degli aspetti più mostruosi del consumismo e della globalizzazione, svelare quale barbara ferocia si cela dietro la parola “sviluppo” tanto cara al mondo industriale.

No, Pasolini non è più “complesso” di Montale o di Rossellini. È semplicemente più dentro le dinamiche del mondo di oggi, ne ha saputo leggere con quarant’anni di anticipo i pericoli più vivi e i crimini più efferati. Entrare nelle parole di Pasolini vuol dire scoprire come le collusioni tra crimine e poteri, le squallide puntate della corruzione della politica, delle tangenti, della televisione come oppio dei popoli, l’instupidimento delle masse scientificamente progettato fosse già lì, quaranta, cinquanta, sessanta anni fa. E come nessuno ha avuto interesse a fermarlo.

Resta da capire, a fronte di questo categorico rifiuto ad affrontare le opere di Pasolini, il perché sussista e resista l’unanime giudizio di “uno tra i più grandi del XX secolo”. Non sarebbe stato più comodo oscurarne del tutto la figura? No, sarebbe stato semplicemente più pericoloso. Sarebbe nata una leggenda. Molto più semplice liquidarlo come “un grande, ma difficile da spiegare”.

In questa manovra l’aspetto più vergognoso è che l’alibi più gigantesco a restare muti, sordi e ciechi nei confronti delle parole del grande intellettuale è fornito, paradossalmente, proprio dalla sua morte. Il brutale assassinio di Pasolini, a tutt’oggi un abissale mistero italiano irrisolto, pieno di dubbi e poverissimo di certezze, lascia lo scrittore inchiodato lì, sul lungomare di Ostia, orrendamente straziato da un agguato di ferocia inaudita su cui nessuno ha mai voluto davvero fare chiarezza.

È lo stesso Pasolini, ennesimo paradosso, a spiegarci quindi il perché di tutto questo.
Egli sosteneva che il potere non solo insabbia e nasconde ciò che ritiene scomodo, ma riesce a capovolgere ciò che è scomodo a proprio vantaggio. Ed è così che è andata: l’omicidio Pasolini, evento terribile e terribilmente scomodo per il potere, diventa l’alibi per non affrontare le sue opere, estremamente più scomode della sua morte. L’omicidio diventa così un mistero da prima serata, un punto oscuro da gossip morboso, capace – abilmente artefatto e velato – di catalizzare tutta l’attenzione dei media e non. In definitiva: di Pasolini se ne parla, ma si parla solo ed esclusivamente della sua morte. In maniera sfumata per di più, superficiale e, appunto, semplicistica.

Così però, anche se non ce ne rendiamo conto, continuiamo a ucciderlo. Continuiamo a farlo da quarant’anni, ogni giorno.
Allora, come fare a smettere di uccidere Pasolini?
Anzitutto separando le due questioni, mettendo da una parte l’opera dell’artista e dall’altra la sua morte.
Successivamente, parlare della sua morte per quello che è. Vale a dire per uno scandalo giudiziario vergognoso, fatto di omissioni e insabbiamenti, e non come un mistero fantascientifico.
E infine, finalmente, leggere il poeta, il romanziere, il drammaturgo, il regista, il polemista.
E capire.
Non capire Pasolini. Ma capire noi stessi.

Riccardo Lestini

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