Cosa mi spinge a scrivere e cosa provo quando un mio libro vede la luce?

A Cinzia D’Eramo

Nel post che ho pubblicato stamattina, “Manuale di sopravvivenza per giovani artisti” (lo trovate qui sopra), mi sono divertito a elencare le “dieci domande” più idiote che si possono fare a uno scrittore su un suo libro appena uscito in libreria. Uno scherzo, una presa in giro non solo verso chi ha fatto, fa e farà queste domande, ma anche (soprattutto?) verso me stesso. Perché scrivere, il “mestiere” di scrivere, è spesso, suo malgrado, affare assai pesante. Non tanto lo scrivere in sé, quanto tutto ciò che lo circonda. E si finisce col rischiare sempre, in continuazione, di rimanere travolti e schiacciati da questa pesantezza, di trasformarsi in boriose statue di cera ingessate e costipate, aride e lontanissime. Così a volte è necessario prendere e prendersi in giro, alleggerire il tutto, sconsacrarlo e dissacrarlo. Giocando con le “domande idiote”, ad esempio, che ci sono e meno male che ci siano. Poi ci sono anche le domande “pesanti” appunto, e quelle, invece, mannaggia alla miseria che ci sono. Ma ci sono, infine, anche le domande “vere”, quelle “importanti”, così vere e importanti che ti costringono a fermarti, riflettere, guardarti e scavarti dentro. Anche quelle, soprattutto quelle, meno male che ci siano.
Una, anzi due domande vere e importanti mi sono state fatte, proprio a commento del post di cui sopra, da una persona che purtroppo non ho la fortuna di conoscere personalmente, ma che stimo tantissimo lo stesso e che sono felicissimo di avere come “amica” virtuale.

“Cosa ti spinge a scrivere e cosa provi quando un tuo libro vede la luce?”, mi ha chiesto Cinzia.
E io a rispondere ci provo, guardandomi e frugandomi dentro appunto, nella più spietata e suicida sincerità. E nella speranza di dare una risposta all’altezza della domanda.

Io mi ricordo tutto, o quasi. Ho un rapporto maniacale con le date, gli eventi, passo ore a stilare elenchi, mentali e non, di ciò che ho fatto nella vita: tutte le volte che ho preso un aereo, tutte le volte che mi sono innamorato, tutte le volte che ho messo in scena uno spettacolo a teatro. Un’ansia, un desiderio e un bisogno continuo di rimettere insieme i pezzi, di accatastare gli attimi vissuti, rivederli al rallentatore, trovarci un punto d’inizio, un’evoluzione. Un senso. Conosco il momento esatto d’inizio di tutto ciò che mi riguarda. Ma dello scrivere no. Per quanto mi sforzi, io non so dire quando ho cominciato a scrivere. E intendo proprio quando ho cominciato a scrivere con la pretesa di essere letto. Ricordo che già lo facevo da bambino, che m’inventavo delle storie e poi le raccontavo agli amici più cari. Ma come, quando e perché abbia avuto inizio tutto questo no, non lo so proprio dire. Come se un punto d’inizio non esistesse, come se lo facessi da sempre.
E allora mi viene da dire che ciò che mi spinge a scrivere è il fatto di non saper fare altro, il non avere nient’altro da dare o da lasciare a me stesso e a chiunque altro si interessi ai miei occhi e al mio camminare su questa terra, il non volere che resti altro di me, quando tutto di me sarà dissolto.
Ma non basta, c’è tanto altro, tanto “di più”.
Mi spinge a scrivere l’amore e la preferenza che ho da sempre per il tempo smisuratamente lungo ed eterno dello scrivere, così diverso da quello smisuratamente breve e fuggevole del caos quotidiano.
Mi spinge a scrivere il preferire da sempre il silenzio al rumore.
Mi spinge a scrivere la pretesa assurda e smisurata di raccontare ogni cosa, ogni avvenimento, ogni frammento bruciante del mio stomaco, ogni microcosmo visto, vissuto o soltanto sfiorato. E saper accettare la consapevolezza disperata di non poterci riuscire.
Mi spinge a scrivere la pretesa assurda e smisurata di inventare linguaggi, ribaltare le parole, ucciderle e resuscitarle. La pretesa assurda e smisurata di cambiare il mondo.
Ma soprattutto scrivo perché davvero non so parlare in altro modo, perché non conosco altro modo di comunicare, perché è il mio più naturale linguaggio per parlare al mondo. Perché davvero è l’unica arma che ho per gridare, sussurrare, piangere, ridere, denunciare, indignare. L’unica arma che ho per dare un ordine alla confusione del mondo e della vita. L’unica arma per difendere la bellezza, perché ogni volta che scrivo mi sento eroico ed aereo come Perseo contro la Medusa.
Perché amo il mondo e la vita al punto da aver avuto il coraggio di gettar via la maschera della vergogna per poterli raccontare.

Un tuo libro che vede la luce invece, è come una sbronza: potente, vertiginosa, irreale.
Si provano troppe cose, in quei momenti lì. Così tante che è praticamente impossibile districarle, stenderle e guardarle una a una.
Di certo si è felici. Felici e vanesi. Umanamente e sfacciatamente vanitosi, tronfi ed egotici al cubo nel vedere il proprio nome stampato lì, proprio lì, su una copertina cartonata. Il giorno che arriva in libreria ci si sente immortali, al punto che è difficile tornare a casa e mettersi a fare le cose più normali, come cucinare, rifare il letto, accendere la televisione.
E anche se con se stessi ci si vergogna di questa misera vanità, di questa stupida sensazione di onnipotenza, non si riesce a farne a meno. Si controlla, si tiene a bada con leggerezza, ma evitarla è impossibile.
Seguono ansia e smarrimento, altrettanto umani e altrettanto miseri: piacerà? Non piacerà? Lo compreranno? Lo leggeranno? Cosa penseranno?
Tutto questo però, ansia e vanità, non è che l’immediato. E soprattutto non è che la superficie.
A scavare si trova ben altro, ben più profondo e ben più duraturo.
A scavare si trovano tristezza, malinconia, solitudine, abbandono.
Si trova un dolore inspiegabile.
Hai passato settimane, mesi, a volte anni, a strapparti dalle viscere le tue più oscene intimità, le tue ossessioni, le tue manie, le tue idee più pure e sincere, averle plasmate sotto forma di frasi e periodi, averle cullate, averci dormito, pianto, riso, sofferto. Speso una quantità sovrumana di solitudine, menzogne, lacrime, sangue, fango, polvere, tempesta, una quantità sovrumana di vita reale buttata in mare, sprecata, distrutta, annientata. Un capitale immenso di miseria da pagare che non ti verrà mai reso indietro, se non sotto forma di vita in carta e inchiostro dove tutto, magicamente, ti appare esattamente come dovrebbe essere.
E il dolore è proprio lì: nel fatto che quella carta e quell’inchiostro devi salutarli, separarti per sempre da loro. Nel fatto che nel momento in cui diventano un libro acquistabile da tutti non ti appartengono più, e diventano di proprietà di schiere di sconosciuti che leggeranno, piangeranno, si emozioneranno, rideranno, bestemmieranno, soffriranno per cose che tu non hai mai avuto in mente.
Si potrebbe pensare che non ci sia niente di più esaltante che mettere la parola fine al proprio racconto, impacchettarlo e gettarlo nella mischia del mondo. Invece, per quanto mi riguarda, separarsi dalle proprie opere è uno degli aspetti più difficili e dolorosi dello scrivere. Non ho mai scritto per qualcuno. Ho sempre scritto solo ed esclusivamente per me stesso, depositando sulla carta macigni e scorie di vita interiore, pezzi d’anima, percorsi interiori allucinati e allucinanti.
Ai lettori ci penso, certo che ci penso: ma ci penso magari prima, ci penso senz’altro dopo. Ma durante, mentre scrivo, mai. Mentre scrivo penso solo a me stesso.
E decidere che un qualcosa è definitivamente concluso, che la parola fine è finalmente arrivata, vuol dire abbandonare se stessi, rinunciare per sempre a un pezzo della propria vita.
In sostanza e in definitiva, ecco cosa si prova, quando un tuo libro vede la luce. Ti senti come l’aviatore del “Piccolo Principe” quando il ragazzino dai capelli d’oro lo abbandona: sai di aver appena vissuto qualcosa di straordinario e di averlo perso per sempre. E vorresti dire, a ognuno dei potenziali lettori, le stesse parole dell’aviatore alla fine del libro:
“se allora un bambino vi viene incontro, se ha i capelli d’oro, se non risponde quando lo si interroga, voi indovinerete certo chi è. Ebbene, siate gentili! Non lasciatemi così triste: scrivetemi subito che è ritornato…”.

Riccardo Lestini

‪#‎storieRiccardoLestini‬

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