Distruggiamo i premi letterari

Per ritornare alla “vera” letteratura e alla “vera” scrittura, o almeno per fare in modo che letteratura e scrittura si riprendano all’interno del tessuto sociale il loro posto – e la loro funzione – naturale, occorrerebbe distruggere, demolire, cancellare dalla faccia della terra – e soprattutto dall’intero territorio nazionale – tutti i premi letterari, uno per uno, dal più enorme al più piccolo, dal più pubblicizzato al più sconosciuto, espropriare i premi messi in palio, inquisire tutti gli artefici di questi ridicoli scempi, dai giurati agli organizzatori.
Esagero? Forse. Anzi, sicuramente esagero. Tuttavia, quel che è certo è che la logica che tiene in piedi l’intero sistema dei premi e dei concorsi è spesso ridicola, altrettanto spesso mafiosa e, soprattutto, sempre e tassativamente esattamente contraria e nemica di ogni idea “sana” di letteratura e di diffussione della stessa.
Prendiamo il Premio Strega, il riconoscimento massimo per la narrativa italiana, l’equivalente letterario del Festival di Venezia, la Wimbledon nostrana dei libri, consegnato proprio ieri a Nicola Lagioia per il suo romanzo “La ferocia” con la solita celebrazione in pompa magna, stile incoronazione poetica ai tempi del Petrarca. In realtà una buffonata colossale, una gigantesca fesseria di stato, visto che si sapeva già da mesi che avrebbe vinto quel titolo e quello scrittore, così come da mesi si sapeva il lotto dei cinque finalisti. Niente di personale contro Lagioia, che è un ottimo scrittore, né contro “La ferocia”, che è comunque un bel romanzo. Il fatto è che il Premio Strega non l’ha vinto lui, ma l’ha vinto Einaudi. Perché questo è il Premio Strega: un’equa spartizione tra i colossi dell’editoria, così come – tanto per dirne una – il festival di Sanremo è un’equa spartizione tra i principali discografici. E quest’anno Einaudi ha esercitato il maggior numero di pressioni, ha investito il maggior capitale economico arrogandosi il diritto di portare a casa lo Strega.
Vi propongo questo gioco. Ogni anno, dall’anno prossimo, guardate il lotto dei cinque finalisti dello Strega, e vi troverete davanti sempre lo stesso criterio di selezione: un bravo scrittore di discreta esperienza con un romanzo altrettanto discreto dai contenuti socialmente “puliti”, edito da un colosso editoriale e solitamente destinato a vincere (quest’anno era, appunto, Lagioia); uno scrittore completamente fuori dagli schemi presentato da un altro colosso dell’editoria (Kovacich, edito da Bompiani, che è arrivato secondo); una giovane promessa edita da un altro colosso dell’editoria (Genovese, edito da Mondadori); uno scrittore di genere presentato da una casa editrice leader nel settore (Santagata edito da Guanda); e, infine, uno scrittore realmente di rottura, edito da una casa editrice indipendente, che per quanto possa valere non vincerà mai (Elena Ferrante quest’anno, edita come al solito da E/O). L’anno prossimo probabilmente lo scrittore discreto dal romanzo pulito toccherà a Bompiani o a Garzanti o comunque a qualcuno del gruppo Rizzoli, che poi da qualche mese è lo stesso gruppo di Mondadori, che di conseguenza si potrà tenere la giovane promessa, mentre Einaudi rilancerà la collana Stile Libero prendendosi l’autore fuori dagli schemi, alla Newton&Compton toccherà la narrativa di genere e un editore indipendente a caso che avrà avuto il merito di pubblicare il vero pezzo da novanta verrà inserito nella cinquina, ovviamente e come sempre senza alcuna possibilità di vittoria.
Magari fosse solo questo. Magari fosse soltanto la spartizione mafiosa della torta in pieno italian style. A mio avviso la cosa più grave è la filosofia di completa chiusura, nonché l’ovvia ricaduta monopolistica di mercato, che sottende a tutto questo. Quanti di voi – magari anche abituali lettori, abituali frequentatori di librerie e biblioteche – sapevano che ieri si sarebbe consegnato il premio più importante della letteratura italiana contemporanea? Io credo pochi, pochissimi. E non è certo una vostra mancanza. È una cosa voluta. Scientificamente voluta.
Perché la letteratura, e tutto ciò che la riguarda, deve rimanere un affare chiuso, elitaria, una festa privatissima ed esclusiva per pochissimi privilegiati invitati.
Perché se il mercato del libro è in crisi non si cerca di rilanciarlo investendoci realmente, se la gente legge sempre meno non si cerca di riavvicinarla e di farla (ri)innamorare della letteratura. No, si cerca in tutti i modi di arroccarsi in castelli dorati e inaccessibili, lontani anni luce dalla gente, luoghi ameni in cui i potenti addetti ai lavori non fanno che parlarsi addosso.
Perché spartirsi la torta dello Strega (e del premio Campiello, del premio Bancarella, del premio Viareggio e via dicendo… ), significa anche e soprattutto prendersi il diritto di invadere con i propri titoli gli scaffali e le vetrine delle librerie, accaparrarsi le recensioni dei giornalisti compiacenti, occupare militarmente le pagine culturali dei quotidiani. E, di conseguenza, seppellire e distruggere l’editoria libera e indipendente, la libera circolazione delle idee che sarebbe – sarebbe appunto – la base della creazione letteraria, distruggere e seppellire la libertà di scelta dei lettori.
E non importa cosa si pubblica, non importa se i libri siano belli, mediocri o assolutamente scadenti e improponibili: importa che siano comodi e puliti (salvo poi inserire qualche rottura qua e là calcolata col contagocce), e soprattutto importa che siano pubblicati da quei quattro-cinque marchi presenti ovunque, dalle librerie agli autogrill, dalle edicole agli aeroporti.
Un sistema e una filosofia che non riguardano soltanto i grandi numeri, i grandi premi e i grandi concorsi, ma che si ripetono e si ripropongono puntualmente in piccolo in ognuno delle centinaia di premi letterari sparsi in ogni angolo remoto d’Italia. In moltissime di queste kermesse o pesudotali si ripropone il gioco mafioso dei vincitori annunciati, e in tutti – dico tutti – questi premi e premiuncoli si ripete all’infinito la logica della più ottusa e interessata chiusura elitaria.
Un concorso, specie se piccolo, dovrebbe essere una “vetrina” soprattutto per i giovani artisti, un momento di apertura, dialogo, confronto. Un modo per investire soldi e impegno per portare alla luce opere che altrimenti non avrebbero lo spazio che meritano. Neanche per sogno: non solo nove premi su dieci non sono altro che circoli viziosi di soldi che servono soltanto a tenere in piedi fondazioni inoperose o a mettere in luce l’assessorato di turno, ma si svolgono nel più chiuso e impenetrabile elitarismo, nel più becero parlarsi addosso e contemplarsi per ore l’ombelico.
I concorsi di poesia sono i peggiori. Giurie composte da pseudopoeti, pseudoscrittori e docenti di lettere che giudicano altri poeti e altri docenti di lettere invitando alle cerimonie di premiazione altri scrittori, altri poeti e altri docenti di lettere. Un clan, una cosca, un club esclusivissimo che taglia fuori il resto del mondo. E la poesia – nata come straordinario veicolo di idee e comunicazione – muore inserabilmente e per sempre, soffocata dalla polvere accademica delle biblioteche.
Un’ultima cosa, per precisione: non mi tiro certo fuori da questo scempio. Ho pubblicato tre libri e anche io ho partecipato a premi e concorsi, anche io li ho vinti, anche io sono stato a volte un vincitore annunciato e altre volte un perdente annunciato. Ed è proprio per questo che ne parlo: perché so esattamente come funzionano. E non ci sto più. Ed è difficile – vi assicuro – difficilissimo, non starci più. Con il mio ultimo libro (“Solitudini”, 2013), ho dovuto lottare furiosamente per NON presentarlo a NESSUN premio e a NESSUN concorso. Una guerra furibonda, ma alla fine ce l’ho fatta. E questo non è stato privo di conseguenze. Per questi miei “gran rifiuti” ho avuto, ed ho, una cascata di problemi, ostracismi e via dicendo.
Ma non importa. Non m’importa davvero. La letteratura non è necessariamente pubblicazione… la letteratura è anzitutto aria fresca, ossigeno, scandalo, rottura, veicolo d’idee, amore, sangue, sudore. Qualcosa di vivo insomma. E io preferisco essere vivo piuttosto che partecipare a questo immenso cimitero di sepolcri imbiancati. Preferisco non pubblicare, o pubblicare con molta difficoltà e molta fatica, piuttosto che essere complice di tutto questo.

RL

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