Per farla finita con i luoghi comuni (manifestazioni e scontri di piazza: note a margine)

I cosiddetti “Black Bloc”, chiamati puntualmente in causa ogni qualvolta si verifica un’azione eversiva a margine di qualsiasi manifestazione, in realtà non esistono.
O meglio, esistono, ma non nel modo in cui ce li presentano.
Anzitutto, non esiste, né è mai esistito, un movimento, gruppo o associazione, strutturato e organizzato, rispondente al nome di “Black Bloc” (per sapere questo non occorre compiere chissà quale complicata indagine, è riportato addirittura nella bibbia odierna dell’informazione dozzinale, Wikipedia – controllare per credere).
Non sono nemmeno “infiltrati” o “provocatori”: di certo qualche infiltrato e qualche provocatore ci sarà senz’altro, ma solo in minima parte.
“Black Bloc” altro non è che una sigla, un marchio creato dai media, coniato nei primi anni ’80 nel nord Europa, poi caduto in disuso e infine riesumato ad hoc a partire dal G8 genovese del 2001. “Black Bloc” è, in definitiva, la definizione di comodo, con cui i media sintetizzano in maniera sbrigativa, semplicistica, superficiale e addirittura fuorviante, i responsabili di qualsiasi incidente scatenato intorno alle proteste di piazza.
In realtà sono singoli individui (“cani sciolti”, direbbe qualcuno) che non sono organizzati in alcuna struttura, le cui azioni non sono state decise in nessun incontro e in nessuna riunione preliminare. Singoli individui (“spontaneisti”, direbbe qualcun altro) che non rispondono ad alcun piano premeditato né ad alcuna risoluzione strategica. Singoli individui che nella maggior parte dei casi non si conoscono neppure tra di loro e che si incontrano direttamente il giorno della manifestazione.
Singoli individui, soprattutto, che credono veramente nella logica della devastazione come unico strumento efficace di protesta, che credono veramente nella logica della devastazione come unico modo per dare risalto e risonanza alle motivazioni della protesta.
Singoli individui che tuttavia non rappresentano, come si potrebbe credere, l’ala estrema e radicale dell’ideologia delle proteste di piazza, ma la sua degenerazione e distorsione.
Se però si rifiuta di considerare, analizzare e comprendere il fenomeno per quello che realmente è, senza esagerazioni né minimizzazioni, senza vulgate popolari e soprattutto senza isterismi mediatici, ci si allontana completamente dalla realtà, si rifiuta di sapere e conoscere realmente ciò che ci circonda. Si accetta una logica mediatica di certo comoda e rassicurante (“sono un esercito” e “sono tutti infiltrati” sono affermazioni, oltre che non vere, che li rendono marziani, alieni dalla realtà, lontanissimi, un qualcosa che non ci riguarda), ma che al tempo stesso semplifica, mistifica, appiattisce e uniforma il tutto, che cerca – e ottiene – l’obiettivo di rendere l’opinione pubblica non più capace di fare distinzioni, l’obiettivo di seppellire le ragioni autentiche della protesta sotto la coltre delle devastazioni.
Un sistema vecchio quanto la storia dell’umanità, ma a quanto pare ancora efficace. Le BR sequestrano Aldo Moro? Allora tutti i movimenti di piazza degli anni ’70 sono terroristi. L’Isis taglia le gole di ostaggi innocenti? Allora tutto l’Islam è criminale. I “Black Bloc” sfasciano le vetrine? Allora tutti i manifestanti sono delinquenti.
Ma la logica dell’appiattimento di un’informazione distorta fa ancora di peggio. Non solo appiattisce, ma addirittura ribalta il pensiero dell’opinione pubblica. Fino a tre giorni fa c’era un diffuso moto di indignazione popolare nei confronti dell’Expo, degli appalti truccati, della corruzione, delle tangenti, dello spreco assurdo di denaro pubblico, dei ritardi, delle mancanze e delle promesse a vuoto del governo. Oggi di quell’indignazione pare non esserci più traccia. Di colpo l’Expo è diventato cosa buona e giusta, improvvisamente l’Expo da simbolo della corruzione si è magicamente trasformato nell’emblema stesso dell’orgoglio nazionale da difendere a tutti i costi.
Una logica che, personalmente, mi rifiuto di accettare. Ero completamente e ferocemente contrario all’Expo prima e lo sono adesso. Ritenevo l’Expo una gigantesca operazione criminale prima e continuo a ritenerla tale adesso. Mi dispiace, ma per quanto mi riguarda le vetrine infrante e le auto incendiate non cancellano gli oltre quattordici miliardi di denaro pubblico polverizzati nel nulla, non cancellano una manifestazione organizzata all’insegna dello spreco e della corruzione mafiosa, non cancellano una manifestazione sostenuta e sponsorizzata da multinazionali omicide e criminali che affamano il pianeta, dilaniano e impoveriscono il sud del mondo, finanziano guerre atroci in ogni angolo della terra, sfruttano e torturano esseri umani e animali, deturpano e distruggono l’ambiente in nome del profitto e, sempre in nome del profitto, ci avvelenano con alimenti scadenti e cancerogeni, come l’olio di palma dei prodotti Ferrero e come le carni di McDonald.
E non accetto nemmeno, per questo, di essere considerato un criminale e un delinquente (tra le tante cose ci si dovrebbe in ogni caso chiedere: se sfasciare una vetrina è un’azione criminale – e lo è, certo che lo è – chi a capo di una multinazionale ogni giorno si rende responsabile della morte atroce di migliaia di innocenti, che cosa è?).
Ho partecipato al mio primo corteo nell’ormai lontano gennaio 1991, contro la prima guerra del Golfo, dietro uno striscione di ciò che restava del movimento studentesco della Pantera. Avevo quattordici anni. Da allora, fatti due conti, avrò preso parte a qualcosa come circa cinquecento manifestazioni. Cinquecento manifestazioni nel corso delle quali non ho mai commesso la benché minima azione di violenza o danneggiamento. E non per pacifismo: sono pacifico, non pacifista, nel senso che rivendico il diritto a difendersi, reagire, resistere e rispondere davanti ai soprusi e alle sopraffazioni. Se ho sempre condannato questo genere di violenze, e se continuo a farlo, è perché le considero aggressive, stupide, inutili. Soprattutto contraddittorie. Questi individui agiscono nella convinzione di manifestare contro il capitalismo e di colpirne – incendiando le macchine e distruggendo gli sportelli bancomat – i simboli. Non capiscono che così non fanno altro che mettere in moto uno dei cuori pulsanti più giganteschi della “criminalità legalizzata capitalista”: il sistema delle assicurazioni.
Certo anche noi manifestanti che rifiutiamo questo genere di violenze assurde e indiscriminate abbiamo le nostre colpe. Dovremmo essere in grado di prevenirli, isolarli maggiormente, magari smettendo – come in molti fanno – di andare alle manifestazioni come fossero gite fuori porta e ripristinando servizi d’ordine degni di questo nome.
Perché non vai a dirle e spiegarle pubblicamente queste cose, magari in televisione?, mi ha detto proprio ieri sera una persona.
Lo farei volentieri, rispondo. Ci andrei subito, stasera stessa, al TG1, a ripetere parola per parola di quanto ho appena scritto. E come me, lo farebbero in molti, ma non ce ne danno possibilità. Nessuna televisione mi permeterebbe di dire queste cose. La televisione deve parlare di “Black Bloc” e poi tacere ad esempio, su come appena ventiquattro ore dopo, la polizia ha caricato e manganellato maestre elementari e anziani professori di liceo che chiedevano un confronto con il Premier sulla riforma della Buona Scuola.
La televisione deve mostrare solo le auto incendiate e i bravi e onesti cittadini che ripuliscono la città imbrattata da quelli “brutti sporchi e cattivi” che non vogliono quella meraviglia che è l’Expo.
La televisione deve far vedere solo ciò che è opportuno far vedere.
La televisione non deve spiegarci i contesti né la complessità reale delle cose.
La televisione deve scegliere per noi il nostro pensiero più consono e accettabile.
A noi, soltanto a noi, la scelta di accettarlo o meno.
La scelta di addormentarci nel sonno della ragione o di conoscere finalmente la realtà.

Riccardo Lestini

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