Albergo Diaz (la rabbia il sangue la memoria)

“Albergo Diaz” è il titolo di uno splendido blues che purtroppo conoscono in pochi e che, doppio purtroppo, in pochissimi hanno avuto il privilegio di sentir suonare dal vivo.
Perché la scuola Diaz, proprio ‘quella’ scuola Diaz, fu anche un albergo, a suo modo. Di certo quel posto scalcinato e ingombro di due cantieri poteva apparire un albergo, un hotel di lusso ultralusso a diecimila stelle in quei giorni di botte, corse, sudore, campeggi e riposi posticci.
Un albergo insperato, al chiuso e tranquillo, per chi non sarebbe riuscito a partire alla fine delle manifestazioni e avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo.
Come poi è andata a finire, lo sappiamo tutti.
Quando la polizia fece irruzione dando il via alla mattanza, era tutto finito. Il G8, il corteo, gli scontri, gli arresti. Tutto finito, e già si stilavano bilanci. In molti, in macchina treno o pullman, già percorrevano la via del ritorno. Altri erano addirittura già a casa. Altri ancora, la maggior parte, erano in attesa di partire, coi pullman ancora bloccati a piazza Marassi oppure sdraiati sulle banchine di Brignole, en attendant treni con ritardi biblici.
Tutti stremati, le ossa rotte, brandelli di follia addosso. Riposare, rilassarsi, praticamente impossibile. C’erano troppe domande, troppi perché senza risposte. Troppi compagni arrestati senza motivo e spariti nel nulla, troppi avvocati impotenti e increduli. Troppi segni sulla pelle. Troppo tutto.
La notizia arrivò per tutti come uno squarcio in quella notte assurda. Stanno assaltando il dormitorio della Diaz, stanno sfasciando il Media Center. Impossibile, non può essere vero, il G8 è finito, che cazzo vogliono ancora?
Eppure, in qualche modo, tragicamente attesa.
Difficile, forse impossibile, spiegarlo a chi non c’era, a chi non ha respirato quell’aria, a chi non ha vissuto quei giorni surreali. Ma per quanto il già accaduto fosse andato ben oltre la sfera del possibile e del concepibile, c’era netta e chiara la sensazione che non fosse ancora finita, che non ne avessero ancora abbastanza, che la punizione cui avevano deciso di destinarci non fosse ancora arrivata al culmine, che qualcosa di terribile dovesse ancora accadere.
Così ok. Sono entrati dentro la Diaz. Entrano a mani vuote ed escono esibendo feriti come trofei. Entrano manganelli e divise ed escono lettini dell’ambulanza.
Ventiquattr’ore prima, al termine di un’assemblea drammatica e concitata svoltasi in seguito all’omicidio di Carletto, qualcuno smobilitando disse: “Io col cazzo che torno a dormire in campeggio… ci fanno fare la fine del topo!”. Qualcuno mormorò “esagerato” ma qualcuno preso dal panico decise di dormire sugli scogli. Era facile avere paura, quei giorni là. Si aveva paura a girare da soli con in tasca una copia de “il Manifesto” (come se quel giornale fosse la prova inequivocabile di colpevolezza, il via libera alle manganellate e alle torture), figuriamoci a dormire in uno spazio chiuso, quando ancora il sangue del povero Carletto era fresco sull’asfalto di piazza Alimonda.
Questo ventiquattr’ore prima però, a G8 ancora in pieno corso, con ancora il corteo più grande della settimana da allestire.
Ventiquatt’ore dopo no. Cazzo, no. Che paura si deve avere quando è tutto finito? Eppure sì. Avevamo paura, anche se era tutto finito.
Quando fu veramente tutto finito, quando cioè il “blitz” fu davvero concluso, l’Albergo Diaz era un lago di sangue, un deserto di devastazione.
La cosa più atroce fu che non ci si poteva permettere la rabbia. La rabbia, sacrosanta, cieca, catartica, l’urlo liberatorio e via dicendo, non era possibile. La rabbia si può sfogare nella comprensione, in uno spazio accogliente creato apposta da altre persone per concederti il pianto, la violenza e le imprecazioni di cui hai bisogno per sopravvivere.
In quel momento però la comprensione non c’era, lo spazio accogliente nemmeno, altre persone neanche.
In quel momento c’era solo una storia “ufficiale” che stava facendo il giro del mondo: una volante della polizia transitava sotto la scuola e una marea di facinorosi asserragliati là dentro l’ha bersagliata di pietre ferendo gravemente il conducente… le forze dell’ordine hanno eseguito una perquisizione di routine e si è scatenato il finimondo, un agente delle forze dell’ordine è stato accoltellato, altri aggrediti con mazze e spranghe… che nella scuola è stato trovato un arsenale di armi improprie, che la scuola era il covo dei black bloc.
Tutto falso, come oltre dieci anni di indagini e di processi hanno dimostrato ampiamente e completamente. Tutto falso, una delle sequele di menzogne più colossali della storia, dette, ribadite e sottoscritte dall’intera catena di comando della Polizia di Stato.
Tutto falso, ma non solo nessuno voleva crederci, nessuno voleva nemmeno starci a sentire.
Per questo non c’era tempo né modo per la rabbia. Le vittime non potevano arrabbiarsi, le vittime dovevano rimanere calme e lucide. Le vittime dovevano conservare, costruire e restituire la memoria.
La memoria. Perché fu quello, davvero, il primo pensiero dominante davanti a quell’orrore. E la paura più grande. La paura che il mondo non sapesse, che venisse consegnata alla Storia un racconto non dico alterato, ma completamente inventato.
E fu grazie a quel lavoro paziente e certosino di ricostruzione e complicatissima diffusione della memoria (cominciato col non voler cancellare il sangue lasciato sui muri e sul pavimento) che oggi finalmente, almeno per la scuola/albergo Diaz, possiamo resituire alla Storia il racconto reale e veritiero. Che oggi la Storia racconta che no, non ci fu nessuna volante aggredita e nessun agente ferito. Che oggi la Storia racconta che i 93 arrestati stavano dormendo, al momento dell’ingresso della polizia. Che oggi la Storia racconta che nessun agente fu aggredito, che la coltellata fu prodotta “ad arte” dallo stesso poliziotto sul suo stesso giubbotto. Che oggi la Storia racconta che le bottiglie molotov furono introdotte nella scuola dagli stessi agenti di Polizia.
Grazie alla memoria. Alla memoria condivisa di centinaia e centinaia di persone.
Le persone, appunto. Perché Genova fu anzitutto questo: una storia di persone.
Dicevo di “Albergo Diaz” all’inizio, quel blues meraviglioso sconosciuto ai più.
Nell’ormai remoto ottobre 2003, fu organizzata alla Flog di Firenze una serata “apocalittica”, intitolata “Una notte per la Diaz”, i cui incassi sarebbero andati a sostenere i processi. Promotori i due comitati “Verità e Giustizia” e “Piazza Carlo Giuliani”. Sul palco ci esibimmo io, Anna Meacci, Marco Cavallero, Riccardo Tesi, Cristina Donà, Marco Parente, gli Atem, La Casa del Vento… e i picchi della serata furono senz’altro due. Il primo quando entrò in scena Carlo Monni che, dopo aver detto gentilmente alla Meacci “cavati dai coglioni”, salutò il pubblico dicendo “amici no-globi, io che vengo dagli Champs de Bisens [per i non fiorentini “Campi Bisenzio”, ndr] sono sempre stato dei vostri, infatti i’ Coca-Cola mi fa cacare da quand’ero piccino”, e che dopo – per sottolineare la sua ostilità alla globalizzazione neoliberista e la sua fedeltà alle tradizioni locali – si lanciò in un’esecuzione indiavolata del suo cavallo di battaglia, “L’amore è come l’ellera” (qualcuno quella sera per quell’esibizione mugugnò un pochino, ma il Monni era così, era di tutti ma non tutti lo capivano… non era facile capire sempre quella spaventosa e geniale carica anarco-eversiva che quel gigante sapeva sprigionare). Il secondo picco fu la trionfale esibizione di Roberto “Freak” Antoni, che dopo aver sdraiato il pubblico di risate con un quarto d’ora delle supercazzole migliori del suo repertorio, si lanciò nell’esecuzione di un blues pazzesco, potentissimo, splendido, incredibile: “Albergo Diaz”, per l’appunto. E la Flog venne giù, letteralmente.
Il fatto che proprio loro due, il Monni e Freak, oggi non ci siano più, rende ancora più commovente, intimo e intenso il ricordo. Il ricordo soprattutto di quello che successe dopo, dietro le quinte. Quando Freak venne da me, proprio da me, a farmi i complimenti per il mio monologo. E io felice, confuso e imbarazzato che ringraziai e gli feci a mia volta i complimenti, per tutto, per gli Skiantos, per ogni suo singolo spettacolo (“li ho visti tutti Freak” “puoi provarlo Riccardino?”), e soprattutto i complimenti per quel blues della madonna, “Albergo Diaz”.
“Tu pensi davvero che abbia funzionato, che sia andato bene?”, chiese sincero, senza ironia.
“Cazzo Freak… è meraviglioso, li hai stesi”.
A quel punto confessò: “Ero molto insicuro… sai… quel blues… l’ho scritto in macchina oggi pomeriggio venendo da Bologna… così… insomma… completamente improvvisato… pensavo fosse un fiasco… “.
E fu lì che il Monni si materializzò alle nostre spalle. “Chissà perché agli altri garbano sempre le cose che a noi ci fanno cacare… “, disse.
Già, perché?
Ne discutemmo a lungo, io e quei due mostri sacri, per buona parte del resto della notte, quasi fino a mattina, tra salsicce arrosto e birra ghiacciata. Non importa quello che ci dicemmo né la conclusione cui arrivammo sul perché al pubblico piacciono sempre le cose che a noi fanno cacare. Quei discorsi escono dalla memoria collettiva ed entrano nella mia memoria personale, che tengo volentieri e gelosamente per me.
Quel che importa è anche quella sera, soprattutto quella sera, si conservò e si restituì la memoria.
Quella memoria che oggi ha portato una lieve ventata di giustizia.
E chi non ha memoria, non potrà mai avere un futuro.

Riccardo Lestini

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