I Modena City Ramblers e la “generazione ’94”

Vent’anni fa, 1994, avevo diciassette anni e facevo il penultimo anno del liceo.
Avevamo, i mei coetanei ed io (o almeno quei coetanei simili a me per modo d’essere e di pensare), uno stile vagamente grunge, la kephia perennemente al collo, poche direzioni e nessuna certezza, nessun punto di riferimento.
Ci chiamavano la “X” generation.
Silvio Berlusconi aveva appena vinto le elezioni e noi, diciassette anni e quindi senza nemmeno la facoltà di votare, ci sentivamo già sconfitti.
E anche se non ci sentivamo “X” di sicuro ci mancava qualcosa. Anzi, molto più di qualcosa.
Ci mancava soprattutto un senso di appartenenza, qualcosa che potessimo rivendicare come “nostro”, qualcosa che noi, nel senso più ampio di generazione, vedessimo nascere e crescere, e con cui condividere emozioni, strade, identità di vedute e di pensiero.
Come ogni generazione di adolescenti, pure noi avevamo la musica. La musica a riempire le nostre giornate, anche il nostro vuoto spesso e volentieri, a fare da colonna sonora alla nostra vita piena di punti interrogativi e senza alcuna risposta.
Noi, che nella musica non cercavamo solo un motivo da poter ballare alle feste, un tormentone buono per un’estate, un qualcosa da canticchiare per evadere qualche decina di minuti, ma che invece cercavamo contenuti, pensieri, riflessioni, spunti, direzioni, avevamo una discografia personale ben precisa.
Ma niente e nessuno di quei dischi-totem che riempivano i nostri scaffali e giravano ossessivamente sui nostri stereo di seconda mano, era veramente nostro.
Ascoltavamo De André, Guccini, De Gregori, ma non erano nostri nel senso più stretto del termine, venivano da altri decenni, da altre generazioni. Canzoni universali che di certo non avremmo mai smesso di ascoltare, ma non erano nostre.
Stesso discorso per il rock più classico, da Jimi Hendrix ai Beatles, dai Doors ai Velvet Underground, da Bob Dylan a Janis Joplin, dagli Stones ai Led Zeppelin. Roba divina, ma non nostra.
Magari avevamo i Nirvana. Nevermind lo avevamo “scoperto” noi, lo avevamo sentito per primi e lo avevamo visto diventare un fenomeno planetario. Ma Seattle era lontana, lontanissima dalla nostra provincia stinta e asfissiante.
Quindi no, nemmeno i Nirvana (e i Peral Jam e gli Alice in Chains e le L7 ecc, ecc, ecc… ) erano completamente nostre.
Eravamo ormai rassegnati a non possedere niente e nessuno, quando in quel 1994 successero due cose per noi importantissime e indimenticabili: prima di tutto Baggio tirò il peggior rigore della storia mandando la palla tra i cieli di Pasadena e consegnando la Coppa del Mondo al Brasile di Romario e Bebeto, e poi per un’etichetta indipendente chiamata Helter Skelter uscì il disco d’esordio di un gruppo che non avevamo mai sentito prima.

 

Loro si chiamavano Modena City Ramblers (quei nomi lunghi tipo Premiata Forneria Marconi, difficili da memorizzare ma impossibili da dimenticare), e il disco era intitolato Riportando tutto a casa.
Né io né altri della mia cerchia di fidati musicofili però lo ebbe mai tra le mani, quel disco.
Un pomeriggio di noia il vecchio Lucio, detto “Golo”, ci portò sta musicassetta da 46minuti registrata malissimo. In teoria c’erano tre pezzi di quell’album misterioso, in pratica (visto che il Golo era il peggior maneggiatore di stereo e affini del centro Italia) se ne sentiva decentemente solo uno. Era Morte di un poeta.
Ci piacque. Ci piacque proprio da impazzire, quell’attacco di violino travolgente, quel rock folk che di certo sapeva d’Irlanda, sapeva di Emilia, ma sapeva pure di noi. Nel senso che parlava a noi e per noi e di noi.
Bestemmiando contro il Golo che ci aveva reso impossibile ascoltare gli altri due pezzi, ce ne andammo in massa a cercare quel disco.
Ma non lo trovavamo da nessuna parte.
Poi, magicamente, ricomparì tempo dopo, anche se non era più lo stesso. Lo aveva ristampato la Polygram ed era stato aggiunto un pezzo, Il bicchiere dell’addio.
Ecco che allora anche noi, generazione ’94, la generazione della finale persa per un rigore sbagliato dal più grande giocatore italiano di sempre, avevamo la nostra musica. Una musica che portava il nome dei Modena City Ramblers.
Proprio quello di cui noi avevamo bisogno, una musica che fosse anche altro, che avesse dei contenuti, degli spunti, delle domande.
Nei Modena City Ramblers ci trovammo il nostro specchio, lo specchio feroce di quegli anni così strani e tormentati: le ceneri della Prima Repubblica (chi può dimenticare un pezzo come Quarant’anni?), il rabbioso grido di come siano necessariamente attuali ed immortali certi valori e certi credo (le travolgenti e irresistibili riletture di Bella Ciao e Contessa, il film musicato de I funerali di Berlinguer), la musica dalla parte degli ultimi (Ahmed l’ambulante, Canto di Natale).
Ma soprattutto, cosa più importante, nei Modena non trovammo maestri.
Non trovammo professori di ideologia pronti a salire su un palco/cattedra a farci la lezione e a indicarci la direzione. Tutt’altro. Trovammo degli onesti compagni di viaggio, che più che suonare e cantare a noi suonavano e cantavano con noi.  Compagni di viaggio che condividevano le nostre paure, le nostre rabbie, le nostre inquietudini, le nostre speranze.
Trovammo domande, più che risposte.
E nella vuota e tragica Italia berlusconiana, dove chiedere ed esprimere dubbi cominciava a diventare un delitto, era proprio di domande che avevamo bisogno.
E furono altro nel senso che non si esuarivano nel disco. C’erano i loro concerti, che ovviamente, sin dal 1995, cominciammo ad andare a vedere, sia che suonassero vicino casa, sia a cinquanta o cento chilometri.
Vederli suonare dal vivo significò, anzitutto, vedere qualcuno che somigliava davvero a ciò che stava suonando.
In un tempo di videoclip patinati e di fenomeni musicali costruiti a tavolino, di show megalitici e fasulli, l’autenticità live dei Modena ci travolse entusiasmandoci. Sul palco c’erano, ogni volta, le stesse emozioni delle canzoni: la rabbia, la speranza, l’inquietudine… e la gioia ovviamente, l’incredibile gioia di suonare e di stare insieme. Pubblico e musicisti, senza soluzione di continuità.
I Modena hanno riempito un vuoto generazionale della musica italiana, dando poi vita, e spazio, ad altre band importanti che sarebbero venute negli anni successivi.
E ovviamente, tutto questo l’hanno fatto senza volerlo e senza averne alcuna pretesa. E senza mai rivendicarlo, negli anni.
Credo che un’altra grandezza, e unicità, di un gruppo come i Ramblers, sia stata quella di non aver mai voluto piantare bandiere, di non aver mai voluto rappresentare niente e nessuno al di là di se stessi.
Semplicemente, sono sempre stati loro stessi, con coraggio e coerenza.
E, di questi tempi, scusate se è poco.
Quando un gruppo pubblica il primo disco, specie se è un disco bello e importante come Riportando tutto a casa, ci si chiede sempre: dureranno? Il secondo album sarà all’altezza? Rimarranno quelli delle origini, nella musica e nello spirito?
I Modena non solo sono rimasti sempre e comunque quelli delle origini. Ma si sono migliorati, se possibile. Album come La Grande Famiglia e Terra e libertà (che resta a tutt’oggi il mio preferito), sono autentiche perle, che ripropongono i temi di sempre senza essere ripetitivi. Gli artisti, quelli veri, grandi e sinceri, non parlano di tutto, parlano di ciò che colpisce il loro sentire. E la grandezza sta proprio nel saper dire cose sempre nuove sui medesimi argomenti.
Credo sia questa la più grande sfida, vinta alla grande, dei Ramblers: evolversi e sperimentare nel solco della più assoluta coerenza, passare dal folk puro dei primi due album a un suono più rock nel terzo, specie con Cent’anni di solitudine, accogliere le contaminazioni e celebrarle nel quarto lavoro con un pezzo manifesto come Celtica Patchanka.
Sfida che va a braccetto con un’altra, ugualmente vinta: guardare al passato per capire il presente, soprattutto per essere nel presente.
E i Ramblers nel presente ci sono sempre stati, sempre controcorrente, sempre coraggiosi. Quanto è stato importante, per noi reduci di Genova, avere una colonna sonora importante come La legge giusta?
Andarli a vedere dal vivo, nel corso degli anni, ma anche a stretto giro di tempo, significa essere presi da una strana vertigine.
Le domande più consuete sono: ma quanti cazzo sono su quel palco? Ma perché non sono mai gli stessi? 
Credo sia scientificamente impossibile contare il numero di musicisti (e non musicisti) che nel corso degli anni sono saliti sul palco dei Ramblers, che ci sono stati anni, che sono andati e poi tornati, che ci sono dall’inizio e non se ne sono mai andati, che ci sono stati per brevissimi periodi.
Un caso più unico che raro, nella storia della musica. A volte qualcuno, un po’ (molto) superficialmente, dice cose tipo erano meglio i Modena di un tempo, sono meglio quelli di ora, e però quando c’era Tizio, meno male che adesso c’è Caio.
Legittimo pensarla come si vuole, ma così sfugge il senso e l’essenza più profondi dell’anima più profonda dei Ramblers.
I Ramblers sono un progetto, un progetto di identità e di coerenza.
Lo so che può suonare strano in tempi di così forte personalismo, individualismo e sovraesposizione dell’immagine del singolo, ma è proprio questo il combat più vero di questa band, il marchio più autentico di resistenza: essere un modo di fare musica al di là dei singolo individuo.
Per capire quanto tutto questo sia vero, basta ascoltare dall’inizio alla fine, senza fiatare, l’ultimo album, il tredicesimo della serie, il doppio Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Un album splendido, compatto, granitico e potentissimo proprio come Riportando e Grande Famiglia, un album di contaminazione, che sa guardare alle microstorie del passato (ancora la Resistenza, la splendida storia della finale di Coppa Davis) stando sempre sul presente (Occupy Wall Street e la splendida e struggente La luna di Ferrara), e improvvisi e meravigliosi squarci di autentica poesia (Kingston Regatta).
E, ovviamente, basta vederli dal vivo.
Ma cosa significa, per me ex “generazione ’94”, ascoltare e andare a vedere i Ramblers dal vivo dopo vent’anni?
Significa vedere altre generazioni che continuano a riconoscersi in quei pezzi, segno che la coerenza paga sempre, e significa continuare a trovare quell’angolo di resistenza necessario alla sopravvivenza.
Significa sentirsi ancora insieme, nella convinzione che gli ideali giusti non muoiono mai e che no, alla fine, no pasaràn.

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