In morte di Gandhi

Così anche tu te ne sei andato, Gandhi. L’ho saputo stamattina che non c’eri più. Con una telefonata breve, fredda, spietata. Attimi e scampoli di minuti preziosi appena prima di entrare al lavoro. Nemmeno il tempo di prendere in prestito una faccia decente per affrontare il dovere quotidiano e non far trasparire le emozioni.
Così anche tu te ne vai, Gandhi, vecchio pazzo, scialacquatore di buon senso che non eri altro. L’ultima volta ti ho visto alla mensa dei poveri, l’anno scorso, ma di sfuggita. Nemmeno il tempo di dirci e darci un ciao degno di questo nome.
Così anche i pazzi muoiono. Che strano…pensiamo sempre che i pazzi non abbiamo età, eppure…
Ora Gandhi te ne vai senza che io sia mai riuscito a sapere perché tutti ti chiamavamo così. Ho provato anche a chiedertelo, qualche volta, ma tu non hai mai risposto. Di Gandhi, quello vero, non avevi proprio niente, nemmeno la più lontana e pallida parvenza. Eri pieno di capelli e sovrappeso, vestivi a tinte scure ed eri una delle persone più aggressive che io abbia mai conosciuto. Chissà, i soprannomi sono misteri che a volte è meglio non scoprire.
Potrei adesso, pensandoti e ripensandoti, dire che la tua vita è stata una colossale ingiustizia. Perché non è giusto che un essere umano trascorra decenni sulla strada, dorma con incubi di manicomi ed elettroshock tra i capelli e poi, un giorno d’inverno, muoia di freddo sulle scale d’una chiesa sconsacrata. Eppure traboccavi dignità, amico mio. Chi ha avuto la pazienza di conoscerti sa cosa intendo. Eri regale nel tuo incedere claudicante tra la stazione e i banchini del mercato, signorile nel modo in cui rispettavi la fila alla mensa, imponente quando spiegavi qualcosa a qualcuno, affascinante nel tuo incessante muovere le mani.
Peccato che siano stati in pochi a conoscerti. A conoscerti veramente, dico. Tu eri uno di quelli che scatenano mani impaurite e scansanti, tu eri uno di quelli che nessuno abbraccia mai, tu eri uno di quelli che nessuno ricorda. Un clochard, un barbone, un senza tetto. Uno di quelli che quando gli si offre aiuto, in genere lo rifiuta. Un prigioniero della strada.
Pazzo folle mio vagabondo, ti piacevano le donne, i dinosauri e i libri. E per i libri ci siamo conosciuti.
Ti ricordi quel giorno di freddo alla stazione quando ti diedi due spiccioli e tu mi cominciasti a parlare di letteratura e del senso profondo dello scrivere? Solo adesso mi rendo conto quanto sia stato importante, per me, quel discorso. E mi vergogno. Mi vergogno perché tu sei morto senza che io ti abbia mai detto grazie. E senza che io sia mai riuscito a dirti che quel romanzo, proprio quel romanzo che ci ho messo dio solo sa quanti anni a scrivere, proprio quel romanzo che ancora nessuno vuol pubblicare, nacque proprio da te e da quel discorso pieno di freddo e parole.
Forse vergognarsi è ipocrita. Forse è così che funziona. Le persone come te piombano improvvise nelle nostre vite per lasciarci sovrumani bagliori di luce che lì per lì non capiamo: perché quel sovrumano bagliore è una qualche verità insostenibile che dimentichiamo subito dopo, ma la cui immagine resterà per sempre in qualche recesso buio del nostro cuore, nella biblioteca in fiamme della nostra vita. Così hai fatto tu, con me. Mi hai lasciato la verità del mio scrivere, il perché di quel romanzo. E io l’ho dimenticato. Quel romanzo l’ho scritto, ma ho dimenticato la luce che tu mi hai donato e che lo generò.
Forse davvero è così che funziona. Per scrivere dovevo dimenticarlo e dovevo ricordarlo oggi, nel giorno in cui tu muori e ci abbandoni.
Dovevo perderti senza salutarti per capire. Capire il non mondo barboneggiante e disperato in cui tu sei vissuto, capire come noi – noi ‘normali’ – camminassimo continuamente claudicanti su un oceano di pena e abisso e non riuscissimo mai a guardarlo, per paura d’impazzire pure noi, e pur di non guardarlo facciamo cose mostruosamente stupide, come asciugare il sangue del mondo strisciando carte di credito.
Non diventerò mai migliore, Gandhi, la mia purezza sarà sempre minacciata da un qualcos’altro terribile e volgare. Pubblicherò il mio romanzo, sì, quel romanzo che tu hai fatto nascere. Avrò i miei giorni incredibili per farmi invidiare da qualcuno, ho e avrò soldi e dracme e sesterzi, forse pochi come oggi, ma comunque sempre più di quanti ne abbia realmente bisogno. E abbracci e calore, sempre meno di quanti ne vorrei e di quanti ne avrei bisogno.
Andrò avanti e ti dimenticherò, amico mio, dimenticherò anch’io come e perché mi hai costretto a scrivere quel romanzo. Mi tornerà e mi tornerai in mente tra chissà quanto, nel giorno in cui meno me l’aspetto. E quel giorno diventerà un altro libro.
E adesso basta. Fuori è freddo e io non ho nemmeno un funerale cui andare o una tomba dove piangerti. Non si sa mai che fine fanno i corpi senza vita di quelli come te.
Basta. Stacco e spengo tutto. Voglio stare solo e ricordarti. E poi dimenticarti.
Ciao amico mio…

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *