Un finale perfetto
A me piace questo film. Piace ricordarlo, raccontarlo e raccontartelo. Mi piace perché di sicuro ha avuto un finale perfetto. Assolutamente perfetto. E mi piace anche se forse nel complesso non è stato un granché. Forse in alcuni punti banale, in altri forse addirittura scontato. La solita storia d’un amore non corrisposto insomma. Eppure a me piace.
All’inizio c’è soltanto lui che si innamora di te senza alcun motivo, se non per il modo in cui i jeans ti fasciavano le gambe, per la piega perfetta dei tuoi pantaloni all’altezza del ginocchio. Io l’adoro quella scena, dove improvvisamente, nello stanco via vai d’una qualunque mattina d’autunno in un palazzo del centro, lui ti vede correre per le scale rapida come una gatta e l’inquadratura mostra solo le tue gambe e poi stacca di colpo sui suoi occhi già innamorati. È che non ci si innamora mai per motivi seri o anche semplicemente sensati. E il bello, io credo, sta tutto qui: la serietà non è un merito e la banalità non è un deterrente. La banalità siamo noi, la nostra vita. Basta farla brillare. E le tue gambe, cristosanto, brillavano, eccome se brillavano.
Quando poi nel film, dopo le gambe, arrivano i tuoi occhi, lui è già innamorato. Per questo i tuoi occhi lo feriscono. Perché sono occhi piccoli e complicati, incerti e incomprensibili. Il loro primissimo piano lo adoro: in quel primo apparire già suonano di condanna e illusione. Di destino già scritto.
A parte questi segnali in codice nascosti tra le pieghe delle tue pupille, in questi primi minuti di film è lui l’unico protagonista. Fondamentalmente tu non ci sei. O meglio ci sei, ma vista esclusivamente dai suoi occhi, che come tutti gli occhi degli innamorati inseguono e s’illudono. Il tuo vero ingresso nella storia avviene più o meno dopo venti minuti di film, ed è subito colpo di scena. C’è la scena della cena: interno, notte. Fuori pioggia e freddo cane, dentro tu, lui e una mezza dozzina di sconosciuti. La scena dove gli altri svaniscono e diventano molto meno che comparse, dove la cena è vostra e solo vostra, dove tutti sono esclusi dai vostri sguardi e dalle vostre risate, dove la vostra complicità taglia l’aria in due e mette farfalle in pancia a chi ha voglia di innamorarsi. Gli altri vi guardano curiosi e imbarazzati, convinti di essere testimoni dello sbocciare d’una meravigliosa storia d’amore. Ci credo anch’io, quando alla fine della serata rimanete soli, allo scoccare imminente d’un bacio, al germogliare d’una promessa. Ma lui si fa timido, rinuncia a qualsiasi mossa e torna a casa. O meglio, sembra che sia così. In realtà non era la sua timidezza, eri tu di colpo distante e sfuggente. Ma questo gli spettatori ancora non lo capiscono, non lo capisce lui e non lo capisco nemmeno io che questa storia l’ho scritta. Così restiamo tutti spiazzati quando subito dopo lui ti porta a teatro e poi in un localino deserto, e in una scena minima e intima come in certi film di Truffaut, finalmente si dichiara. Quando lui ti rovescia addosso tutto il suo amore e tu a testa bassa frantumi in mille pezzi il sottobicchiere, tutti aspettano il tuo sorriso e il vostro bacio. Niente da fare: tu nemmeno rispondi, sfuggi soltanto. Ripeto che forse non sarà davvero un granché come film, ma di sicuro, ne sono convinto, tutti gli spettatori a questo punto si chiedono perché. Perché tutti, me compreso, vedevano nei tuoi occhi e nei tuoi gesti amore per lui e invece quest’amore non c’era. Perché non t’innamoravi di lui. Purtroppo, come in un film di Rohmer, i perché non ci sono. È che il disamore è come l’amore. Come l’innamoramento anche il disamore non ha motivi seri o semplicemente sensati. Accade e basta. E non resta che viverlo. Accettarlo invece, è un po’ più difficile.
Nelle sequenze successive non fai niente. Soltanto lo lasci bruciare nel fuoco disperato della speranza, dell’attesa e dell’incertezza. A volte sei vicinissima, più spesso lontana anni luce. E nemmeno io so spiegarti. Capita a volte agli scrittori di imbattersi in personaggi che rifiutano di essere spiegati, che rifiutano qualsiasi costrizione o imposizione narrativa. Si lasciano scrivere come vogliono loro. Tu sei uno di quei rari casi. Di certo so che non sai parlare. C’è in te un dolore antico, sconosciuto e senza forma che ti impedisce di spiegare ciò che provi con parole nette e chiare. Una sorta di inconsapevole egoismo che ti impedisce di scegliere, di stare da una parte sola, di prendere decisioni totali e definitive. Di più non so, e mi limito a raccontarti. Alla fine gli scrivi una lettera con una grafia nervosa e incerta e un inchiostro verdolino. C’è scritto tutto e niente. C’è scritto che non lo ami, ma c’è scritto che non lo vuoi perdere. C’è scritto che non vuoi stare con lui, ma c’è scritto anche chissà. Così lui capisce tutto e niente, io capisco tutto e niente e anche gli spettatori capiscono tutto e niente.
Tu non vuoi e soprattutto non puoi fare a meno di lui. Lo dici e nel dirlo sei scandalosamente sincera. Altrimenti da questo punto in poi il film sarebbe diventato un racconto patetico, con lui innamorato ferito, ridicolo nella sua ostinazione di castelli per aria e false convinzioni. Invece con te che non riesci né ad amarlo né a fare a meno di lui, il film diventa doloroso, quasi tragico. Perché in un certo senso pure lui smette di sperare, e ti sta accanto soprattutto perché anche lui a meno di te non riesce a fare. In questo siete uguali. La differenza è che lui ti ama e tu no.
Di certo molti spettatori in questo tuo dire e non dire, esserci e non esserci, cominciano ad odiarti. Però c’è questa perfezione, questa complicità perfettamente coincidente, voi due anime gemelle come nessun’altra al mondo. Così, anche se odiano te e vedono lui come vittima d’un supplizio che non merita, continuano a sperare. Come quando vi ritrovate a Verona con altra gente e poi rimanete soli nel buio d’un tardo pomeriggio e contemplate un incredibile azzurro incorniciato tra le volte e non parlate perché non c’è bisogno di parole, perché siete così in sintonia e complici che sapete di sentire, in quel momento, le stesse identiche cose. O come quando scappate un fine settimana a Milano e passate due giorni perfetti come una vita immaginaria e dividete un lettuccio d’un alberghetto di terz’ordine e nemmeno vi sfiorate e a più d’uno spettatore, me compreso, sorge il dubbio che sia proprio questo l’amore perfetto. O come quando alla fine d’una cena con altra gente restate ovviamente soli e vi abbracciate per un tempo che cinematograficamente pare infinito. E nemmeno stavolta vi baciate.
È tutto bello e complicato. Però così il film non può andare avanti, rischia di impantanarsi e girare a vuoto. A questo punto deve succedere qualcosa, uno strappo, un’accelerazione, una svolta qualsiasi. Lo sapete sia tu che lui, ma è lui ovviamente a forzare le cose, perché tu non sai parlare, non sai decidere e in questo pantano indistinto e senza nome né soluzione ci rimarresti volentieri a vita. Così lui ti scrive una lettera. Ed è una lettera tragica e disperata, la lettera di un uomo che non può più vivere così, prigioniero d’un sentimento immenso, di un gioco all’inizio innocente e adesso spaventoso. Il dolore di quelle parole vergate a sangue tu riesci a coglierlo solo in parte, e non perché sei superficiale, ma solo perché ti rifiuti di credere all’esistenza di un qualcosa così grande. Tu parti per una vacanza di qualche giorno, e sai che al tuo ritorno lui t’aspetterà al varco. Quando sei via gli mandi messaggi d’una dolcezza che spacca il cuore, e lui si scioglie e delira nell’aspettarti, febbricitante e smanioso d’amore. Ma quando torni arriva la vera scena madre del film. Sotto un sole cocente voi due passeggiate e tu, d’improvviso, lo uccidi. Dici di avere un altro uomo da mesi e il suo cuore smette di battere. Gli spettatori s’incazzano e vogliono la tua testa. Di sicuro vogliono anche la mia, che ho scritto questo film e non ho saputo metterci un solo indizio per fargli capire che tu avevi un altro da mesi, da sempre. Mi scuso con tutti, ma ripeto: tu sei un personaggio che mi si è imposto senza che potessi farci niente.
Le sequenze che seguono sono rapide e scontate. Lui soffre nell’attesa dell’estate e nell’attesa di rifarsi una vita. Tu sparisci e non lasci nemmeno un briciolo di perché al tuo comportamento. Qualcuno sicuramente penserà che sarebbe bastato tu lo dicessi prima. Ma se tu lo avessi fatto questo film non sarebbe mai esistito.
L’estate è arrivata e adesso è lui che deve partire. C’è una cena la sera prima. Lui è freddo, distante, ovviamente deluso e arrabbiato. Ma la rabbia non dà forza. Anzi, non c’è niente di più fragile d’un innamorato arrabbiato. E allora tu, ubriaca e leggera come il caldo di fine giugno, ti avvicini, lo stuzzichi e lo porti a casa tua. Lui prova ad andarsene, ma tu lo trattieni e lo porti nel tuo letto. Lui piange e vi abbracciate per un tempo eterno. E sfiniti di vino, sonno, caldo e malinconia, finalmente e dopo un’ora di film, vi baciate. È uno di quei baci strani, immensi e infiniti, che non si capisce quando e come sono iniziati, né come e quando potranno finire. Fate l’amore con una tenerezza difficile da raccontare, lui incredulo e felice e tu timida come fosse la prima volta.
Dopo una scena così, in molti credono e sperano nel lieto fine. Ma subito dopo l’amore sei pentita, e in quello stesso letto dove un attimo prima lo hai amato, preso e inghiottito nelle tue viscere, tu lo respingi e lo scacci. In questa scena e in quelle che seguono sei cattiva, spietata, rifiuti di spiegare qualsiasi cosa e lo abbandoni. Sarebbe bastato poco: un gesto d’affetto, una spiegazione, un briciolo di sensibilità, una qualunque assunzione di responsabilità. Niente di tutto questo. Tu sparisci dal film e lui se ne va, affranto, umiliato e calpestato.
L’estate la raccontiamo con un montaggio rapido e sintetico. Lui ha altre donne, alcune splendide, ma c’è il tuo fantasma che aleggia inquietante e ingombrante, così enorme da ridurre tutte le altre al ruolo di comparsa. Comparse che durano il tempo di un minuto di film.
Quando vi rivedete, mesi dopo, lui è pieno di rancore, ma più sereno e pronto a ricominciare senza te. Tu sei impacciata e imbarazzata, non sai come prenderlo, lo vorresti ancora al tuo fianco come l’anno scorso, così ti riavvicini piano piano. Il suo cuore ha ovviamente ancora una porta aperta per te e, senza che nemmeno se ne accorga, ti lascia entrare di nuovo. Eppure stavolta sembra diverso. Lui è finalmente consapevole. Sa che hai un altro uomo, sa che non lo lascerai. Così costruisce pezzo dopo pezzo un nuovo rapporto, una sorta di amicizia intima e indissolubile, una platonica comunione di anime che, almeno all’inizio, funziona perfettamente. Una sera cenate insieme e dopo una bottiglia di vino finite di nuovo a letto insieme. Ma nemmeno questo lo fa vacillare. Lo considera un incidente di percorso e la vostra amicizia è più forte di prima.
Tu sei felice. Da lui hai tutte le attenzioni, l’appoggio e la comprensione che hai sempre desiderato senza l’angoscia e la paura d’un amore da costruire. Sei te stessa come non sei mai stata con nessuno. Eppure c’è qualcosa che non va. Per esempio le sue donne, che per quanto belle e meravigliose, restano semplici comparse. E il perché è molto semplice: anche se non riesce ad ammetterlo a se stesso, lui ti ama ancora. Anzi, ti ama più di prima.
E arriviamo alla fine. O meglio, alle fini. Perché questo film ha tre finali. Il primo è quando la sua vita va a rotoli e il mondo gli crolla addosso. Disperato, deluso e tradito, lui si aggrappa a te come l’unica e ultima ancora di salvezza. In balia del dolore, con l’anima nuda come non è mai stata, costretto a fare i conti con se stesso, capisce di amarti alla follia, e che continuare a starti vicino per lui non sarebbe altro che uno stillicidio. Così te lo dice. Ti dice che vuole tutto o non vuole niente. E quando te lo dice è a te che crolla il mondo addosso. Di colpo ti senti sola, abbandonata, senza più punti di riferimento. La vita senza di lui ti appare vuota e priva di significato. Lo ami? No, è solo che di ciò che lui è in grado di darti, ne hai bisogno come l’aria che respiri. Così lo insegui, lo implori di non abbandonarti, lo baci all’esterno di un ristorante affollato. Lui, innamorato e sempre fragile, non sa dirti di no, e resta con te, nel vortice d’un amicizia che amicizia non è, nell’illusione d’un amore che amore non è. Una sera vi ritrovate di nuovo sdraiati nel tuo letto, ma non fate l’amore. Vi baciate soltanto. E poi lui ti spiega il suo amore con le stesse identiche parole che avresti voluto sentirti dire fin da quando eri bambina. Gli scrivi una lettera dicendo che quelle parole non saprai mai dimenticarle. Ma tra quelle parole c’è scritto anche che non saprai mai amarlo.
Fine. Dissolvenza.
Secondo finale. Didascalia con scritto “tempo dopo”. Quella tua lettera è stato un punto di non ritorno. La sentenza definitiva del tuo disamore. Lui ha preso coraggio e si è rifatto una vita. Ha una donna, è felice e sta costruendo una storia sotto i migliori auspici. Ma tu tutto questo non riesci ad accettarlo. Una gelosia che non sapevi di avere ti divora come un cancro. Nel vederlo con un’altra, nel sentire i suoi sguardi e le sue attenzioni dirottati su un’altra donna ti fa soffrire senza scampo, ti mette addosso un dolore lancinante e inconsolabile. Così lo cerchi, lo implori di nuovo di tornare a essere il tuo amico-non amico, il tuo amore-non amore. Lui si sente forte e sicuro, finalmente distante da te, ed è con questa forza che accetta il tuo invito a cena. Ma la cena esplode in un delirio di mani, baci e abbracci. Fate l’amore come non lo avete mai fatto, affamati e animaleschi. Lo divori dolorosa e definitiva, con un bisogno di lui eterno e senza scampo, come se ogni volta che lui si allontana tu dovessi richiamarlo a te e imprigionarlo nel tuo corpo nudo. Quello che fate è un sesso totale e infinito. Tu senti di averlo ripreso e dopo l’orgasmo ti basta così. Lui no. Lui è scosso e sconvolto e non riesce a far finta di niente. Così lascia la sua donna, l’ennesima comparsa, corre di nuovo da te. Stavolta ci crede. Ha addosso l’odore del tuo sesso, dei tuoi baci famelici, del mondo in cui l’hai stretto e abbracciato e amato. E allora ti dice scegli, e che la scelta sia definitiva. Scegli me o scegli lui. Ti dice ci vediamo in questa panchina tra dieci giorni. Se ci sarai, avrai scelto me. Se non ci sarai, avrai scelto lui. Per sempre e senza più ripensamenti, ricadute o passi indietro. Quel giorno lui arriva a quella panchina col cuore in gola. Ci crede davvero. Ma ovviamente tu non ci sei. Al tuo posto c’è una lettera, una lettera che non dice niente. E tu sfuggi di nuovo a qualsiasi spiegazione. Lui si arrabbia come mai prima d’ora, urla, sbraita. Ma non serve a niente. Stavolta è davvero finita.
Fine. Dissolvenza. Terzo finale, quello perfetto. È passato ancora del tempo, poco stavolta. Lui è finalmente tranquillo. Veramente tranquillo. La rabbia e la lettera senza significato gli hanno fatto bene. Ti ha lasciato alle spalle, anche se non può non volerti bene. È di nuovo estate e lui si è rifugiato in una casetta lontano lontano. Tu vai a trovarlo. Passate una splendida giornata insieme, piena di sorrisi e affetto. La sera dormite insieme, ma è tutto diverso. Lui nemmeno ti abbraccia e non fa nessuno sforzo per trattenersi. Semplicemente non vuole. Amore e desiderio hanno abbandonato anche lui. Tu te ne accorgi, ma non hai reazioni. Cosa pensi non lo sa lui e non lo nemmeno io. Ma a lui non importa. A lui importa solo che sia tutto finito.
La mattina dopo tu riparti. Lui ti accompagna al treno. È doloroso salutarti, anche senza amore. Perché è un saluto che ha un sapore strano, una specie di addio senza strepiti. Il nodo alla gola nel vedere il treno che parte è inevitabile.
Nell’ultima scena lui è da solo in casa appena dopo averti salutata. Sistema il letto vuoto che profuma di te e sorride amaro. Un finale perfetto insomma, con te che te esci di scena senza spiegazioni e lui libero da te ma sempre imprigionato nella sua solitudine. Un finale perfetto per un amore strambo e inspiegabile.
Un finale perfetto, come in certi film di Antonioni. Ma con meno dolore e più rimpianto.
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