Come Perseo uccise la Medusa

La Medusa, mostro fatale e inesorabile, possiede il potere di pietrificare chiunque incroci il suo sguardo diabolico. E nessuno può sfuggirle.
Il vecchio mito, arcinoto, mi sembra la più efficace metafora del mondo d’oggi, del mondo in cui viviamo: è come se fossimo circondati da migliaia di invisibili meduse capaci di rendere di pietra qualunque cosa. Tutto è di pietra attorno a noi, di pietra, pesante, opaco, inerte. Un paradosso folle e insensato: la vita ci sfugge di mano in una velocità divoratrice di sentimenti, in un vortice rapido e privo di bellezza, eppure tutto resta immobile e pesante. Mai il mondo è stato così rapido e così pietrificato.
Qualche giorno fa un ragazzo molto giovane mi ha scritto una lettera piena di dubbi e angosce a cui io, colto dallo stupore, non ho saputo rispondere in maniera adeguata. Mi chiedeva in sostanza cosa e come fare per scrivere, come e cosa dovesse essere la scrittura. Questioni immense e devastanti, a cui io, scrittore ancora “esordiente” e “di nicchia” (tanto per usare due espressioni tremende, ma tanto care all’abisso del mercato editoriale) non ho certo la presunzione di saper rispondere. Posso comunque esprimere una modesta opinione, tracciare un sentiero che mi piacerebbe percorrere.
Anche la scrittura, come il mondo, è un paradosso, ma rovesciato: scrivere ha tempi lentissimi e materie rapide e tagliente, leggere come l’aria.
L’aria, appunto. Calvino, nella prima delle sue “Lezioni Americane”, dedicata alla leggerezza (e riletta stanotte con smania febbrile), ci racconta proprio come Perseo riuscì, unico al mondo, a uccidere la Medusa e a liberare il mondo dalla pesantezza: l’eroe sconfigge la Gorgone senza guardarla negli occhi, standole di spalle e guardando il suo volto riflesso sullo scudo di bronzo. Inoltre, vola sui calzari alati che gli ha donato il dio Ermes.
Lo scrittore, eternamente imprigionato in quella terra di nessuno – stupenda e pericolosa – tra mondo reale e fantasia, una sorta di Potsadamerplatz berlinese ai tempi del muro, deve a mio avviso necessariamente farsi Perseo. Deve innalzarsi sull’inconsistenza di calzari alati, più leggeri dell’aria e delle nuvole, galleggiare sospeso in un vuoto privo di peso specifico. E, soprattutto, restare di spalle, non guardare il volto mostruoso del mondo coi propri occhi, ma rifletterlo in uno specchio. Questo rifiuto della visione diretta delle cose non è mancanza di coraggio ma, a mio avviso, unica possibile battaglia per dominarle con la leggerezza della scrittura.
È un qualcosa che ho sperimentato sulla mia pelle, direttamente e tragicamente: ogni volta che scrivo qualcosa tentando di riportare sulla carta le cose così come sono, affrontandole, per così dire, vis-à-vis, la pagina si fa pesante, insostenibile, farraginosa, stinta in un opaco privo di qualsiasi suggestione. Solo mettendomi di spalle e trasformando le visioni in metafore ed evocazioni, la scrittura acquista leggerezza.
Penso alla “Canzone di Marinella”. De André ha più volte ricordato come l’idea di quel brano gli fosse venuta dalla lettura di un articolo di cronaca nera. Credo non esista niente al mondo di più brutale, diretto e, appunto, “di pietra” degli articoli locali che trattano di morte e omicidi. In quel caso si raccontava della tragica morte di una prostituta bambina, violentata, uccisa e poi gettata nel fiume Tanaro da un gruppo di balordi. Se De André avesse semplicemente tradotto in musica quella sequenza ne sarebbe uscita una canzone pesante, una successione di versi di piombo. Quelle note invece ci fanno sognare da quarant’anni perché il genio che le ha tracciate si è messo calzari alati ai piedi e si è girato di spalle, e in quell’immagine riflessa ha visto la povera Marinella come una principessa, e la sua storia come una fiaba struggente. Il miracolo di Perseo trasforma un “Prostituta sedicenne stuprata e gettata nel fiume” in “E c’era il sole e avevi gli occhi belli/ Lui ti baciò le labbra ed i capelli/ C’era la luna e avevi gli occhi stanchi/ Lui pose le sue mani sui tuoi fianchi”.
Il mito di Perseo termina con una decapitazione. Ma non si pensi per questo che lo scrittore debba essere violento, che la scrittura sia un atto di rabbia cieca e brutale. Nelle “Metamorfosi” Ovidio, parlando sempre di Perseo, ci racconta così quel che accadde dopo l’uccisione di Medusa: “Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita, Perseo rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù”. È un’immagine assolutamente e sorprendentemente dolce. Dolce e gentile e delicato deve essere uno scrittore, anche con la più mostruosa delle materie trattate: ogni mostro, per quanto tremendo, è estremamente fragile. Credo davvero che comprendere la fragilità dei mostri sia un altro requisito indispensabile per la scrittura. Cosa succede infatti dopo che Perseo ha curato con foglie e ramoscelli la testa di Medusa? I ramoscelli marini, a contatto con la testa del mostro, si trasformano in stupendi coralli.
Credo sia un’immagine, quest’ultima, che non abbia bisogno di essere sciupata da altre spiegazioni.
Siamo agli sgoccioli dell’anno: la tradizione ci impone di buttare via il vecchio e inseguire il nuovo. Vorrei portarmi, al di là della mezzanotte del trentuno, proprio Perseo e il suo volo sui calzari alati. Non solo per scrivere, ma anche e soprattutto per vivere: sarebbe bello, negli ingorghi quotidiani e inestricabili del vivere, farsi tutti – ogni tanto – Persei è sconfiggere con uno specchio la pesantezza del mondo.
Essere come il Perelà di Palazzeschi: piccoli e immensi omini di fumo capaci, stretti dal grigiore del quotidiano, di strabiliare il mondo scappando e volando via dal camino.

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